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Medicina high-tech: lo smartphone diventa un dispositivo medico

App e chatbot stanno trasformando il cellulare in uno strumento di prevenzione, diagnosi e cura sempre più sofisticato. Ma il Sistema sanitario dovrebbe svolgere un ruolo di controllo

Foto: iStock



È l’era della medicina high-tech. Oggi basta uno smartphone per monitorare il nostro stato di salute: tutti conoscono le applicazioni che aiutano a conteggiare passi e calorie, ma esistono altre funzioni più innovative che stanno rivoluzionando il modo di prevenire, diagnosticare e trattare le varie patologie.

Fra i progetti italianissimi c’è D-Eye (d-eyecare.com), un piccolo oftalmoscopio (costa 395 €) applicabile sulla lente fotografica del telefonino che consente di esaminare la retina e il segmento posteriore dell’occhio, in modo da individuare glaucoma, cataratta, degenerazione maculare e altre malattie oculari.

Made in Italy è anche D-Heart (d-heartcare.com, costa 400 €), con cui è possibile registrare un elettrocardiogramma professionale e inviare il referto, tramite app, a un cardiologo collegato in remoto per sapere entro 15 minuti come gestire un’eventuale situazione di emergenza.

«Sono due esempi di applicazioni che trasformano lo smartphone in un dispositivo medico a tutti gli effetti», commenta l’ingegner Chiara Sgarbossa, direttore dell’Osservatorio innovazione digitale in sanità del Politecnico di Milano.

Oggi con lo smartphone è possibile controllare l’udito, verificare la qualità del sonno, misurare la pressione e molto altro. «Ma per essere certi di scaricare applicazioni sicure, è bene controllare fra le specifiche tecniche la presenza della certificazione di conformità, costituita dalle iniziali CE», tiene a sottolineare l’esperta.


Le app informative

Meno sofisticate, ma ampiamente utilizzate sono le app informative e di utilità. «In base all’ultima indagine del nostro Osservatorio, svolta in collaborazione con Doxapharma, il 25% degli italiani utilizza un’app per trovare la farmacia di turno più vicina, il 15% per cercare informazioni su un farmaco, il 6% per ricordarsi di prendere un medicinale», riferisce Sgarbossa.

In questo settore, fra le novità per IOS e Android c’è Io Respiro, dedicata a chi soffre di asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva per aiutarli a seguire correttamente la cura e rendere più semplice la condivisione delle informazioni con il proprio medico.


L’universo chatbot

Non è invece una app, ma sfrutta sempre lo smartphone Chat Yourself (facebook.com/chatyourself), un assistente virtuale (gratuito) che aiuta le persone affette da Alzheimer nella prima fase della malattia a ricordare informazioni essenziali come i nomi dei parenti, le medicine da assumere e il percorso per tornare a casa.

«In questo caso si tratta di chatbot, ossia software evoluti che, opportunamente addestrati, simulano una conversazione in tempo reale e del tutto naturale con il paziente», semplifica Sgarbossa.

Oltre a fornire assistenza, i chatbot sono sempre più “allenati” a riconoscere le emozioni degli utenti: per questo, possono risultare utili nel gestire i disagi psichici e arginare comportamenti pericolosi, come gli attacchi di panico. Al momento, in Italia, app e chatbot non rientrano fra le prestazioni rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale: ciò significa che gli eventuali costi, talvolta richiesti per le applicazioni più sofisticate, sono interamente a carico del cittadino.

L’unico esempio virtuoso è quello della provincia autonoma di Trento, che ha trasformato questi strumenti in un atto medico, coperto dal servizio pubblico.

«Il progetto Ti prescrivo una app è nato per monitorare i soggetti diabetici», racconta Paolo Traverso, direttore del Center for Information and Communication Technology della Fondazione Bruno Kessler di Trento. «Qui è il diabetologo a prescrivere un’apposita applicazione, sviluppata dal centroTrentinoSalute4.0 in collaborazione con il Servizio sanitario e personalizzata in base al profilo del singolo malato. I punti di forza sono molti: innanzitutto, a differenza delle app scaricabili liberamente, questa viene “istruita” con promemoria, notifiche e indicazioni specifiche per il singolo caso, evitando generalizzazioni non sempre idonee in un percorso di cura».

In più, essendo gestita dall’azienda sanitaria, assicura la privacy dei cittadini. «Di solito, l’installazione di una app è legata al consenso preventivo al trattamento dei dati personali, che possono poi essere “rubati” per indagini di mercato o altri scopi commerciali», avverte Stefano Forti, responsabile della linea di ricerca Health and Wellbeing della fondazione trentina.

«Nel nostro caso, invece, i dati sensibili vengono raccolti in una cartella custodita nei server dell’azienda sanitaria, garantendo massima sicurezza».

Ma cosa dovremo aspettarci per il futuro? «Di certo ci attende una tecnologia ancora più di frontiera, dove magari lo smartphone sarà soppiantato da chip, cerotti e t-shirt intelligenti. Ma è importante governare questo processo affinché i risultati vengano usati per il bene comune e la salute collettiva»», conclude Traverso.



Il cellulare lavora anche nella moda

Gli usi dello smartphone sono pressoché infiniti: è appena nata la prima collezione di moda che unisce creatività umana e intelligenza artificiale: si chiama Annakiki for Huawei ed è frutto della collaborazione fra il colosso della telefonia Huawei e la stilista Anna Yang.

Per realizzarla è stata addestrata l’intelligenza artificiale di Huawei P30 e Huawei P30 Pro con migliaia di abiti e sfilate degli ultimi cento anni. Al termine, impostando i parametri di base per la realizzazione di un capo (colore, forma, lunghezza), sono derivati input tecnologici da cui la stilista ha preso spunto per creare modelli originali.


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Articolo pubblicato nel n° 24 di Starbene in edicola dal 28 maggio 2019

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