AIDS

L’AIDS (acronimo di Acquired Immune Deficiency Syndrome, o sindrome da immunodeficienza acquisita, o anche SIDA in spagnolo e francese) è lo stadio finale di una malattia causata da un virus, l’HIV (Human Immunodeficiency Virus) che distrugge le cellule del sistema immunitario e interferisce con le capacità di difesa dell’organismo che diviene, quindi, progressivamente più suscettibile […]



L’AIDS (acronimo di Acquired Immune Deficiency Syndrome, o sindrome da immunodeficienza acquisita, o anche SIDA in spagnolo e francese) è lo stadio finale di una malattia causata da un virus, l’HIV (Human Immunodeficiency Virus) che distrugge le cellule del sistema immunitario e interferisce con le capacità di difesa dell’organismo che diviene, quindi, progressivamente più suscettibile sia alle infezioni da batteri, virus e parassitari, sia all’insorgenza di tumori. I sintomi variano a seconda delle fasi dell’infezione. Il primo contatto con il virus avviene normalmente in maniera “silenziosa” per la nuova persona contagiata; solo una parte dei pazienti accusa sintomi due-sei settimane dopo il contagio (cefalea, febbre alta, ingrossamento delle ghiandole linfatiche, eruzioni cutanee e così via) che però non suggeriscono alcunché di particolare sia al soggetto sia al medico curante. Il sistema immunitario non assiste impotente a questa aggressione e si attiva, da una parte producendo anticorpi e altre sostanze ad azione antivirale che cercano di limitare la propagazione di HIV, dall’altra mobilitando e “armando” miliardi di nuovi linfociti; questo procedimento avviene a livello delle ghiandole linfatiche che iniziano così a gonfiarsi e a infiammarsi. Tale meccanismo di limitazione dei danni porta a un sostanziale equilibrio per vari anni, ossia a una situazione di “latenza clinica” in cui il soggetto infetto è in buona salute, non ha disturbi particolari o manifesta sintomi di lieve entità quali stanchezza o febbricola saltuaria. Il virus si moltiplica quindi nei linfonodi e lentamente inizia a distruggere i linfociti cosiddetti T helper (quelli portatori della molecola CD4) che coordinano l’intero sistema immunitario.

Nonostante il tentativo di reazione immunitaria, il virus prende il sopravvento e il numero di linfociti CD4 inizia inesorabilmente a diminuire, innescando il processo di comparsa delle manifestazioni dell’immunodeficienza. Infatti, man mano che il numero dei linfociti T helper diminuisce, insorgono malattie gravi o causate da microrganismi che normalmente, nel soggetto con capacità immunologiche intatte, sono tenute sotto controllo (per esempio Pneumocystis jiroveci, Citomegalovirus, Mycobacterium tuberculosis, Toxoplasma gondii, Candida e altri), oppure compaiono tumori (linfomi, carcinoma invasivo della cervice uterina, sarcoma di Kaposi).

Ognuna di queste malattie può essere curata all’inizio, ma se contemporaneamente non si interviene bloccando la replicazione del virus HIV e ripristinando il sistema immunitario, alla lunga la patologia prende il sopravvento e porta il soggetto alla morte. Inoltre, quando la persona è già debilitata per la presenza di malnutrizione, infestazioni da parassiti o tubercolosi preesistente, la progressione della patologia è ulteriormente facilitata. L’intero processo della malattia si svolge in media nell’arco di 7-12 anni dal contagio; dal momento della diagnosi di AIDS, se non si interviene con farmaci antiretrovirali efficaci, l’esito è infausto nell’arco di dodici-diciotto mesi.

La sindrome fu identificata per la prima volta nel 1981 negli USA dopo che nel breve volgere di pochi mesi, in un certo numero di pazienti omosessuali maschi, furono diagnosticati una rara forma di polmonite (polmonite da Pneumocystis carinii) e un raro tumore della pelle (il sarcoma di Kaposi). Il virus HIV fu isolato nel 1983 quasi contemporaneamente da due équipe di ricerca, una francese coordinata dal professor Luc Montagnier, dell’Istituto Pasteur di Parigi, l’altra americana, diretta dal dottor Robert Gallo, dell’Istituto di Virologia dell’Università del Maryland (USA). Furono necessari diversi anni prima che i ricercatori definissero in modo completo le modalità di trasmissione, sviluppassero test diagnostici, conoscessero il meccanismo alla base del danno immunitario provocato dal virus e mettessero a punto una terapia efficace. Più che una singola malattia, l’AIDS è infatti costituita da un insieme di malattie, infettive o tumorali, che, approfittando dello stato di immunodepressione causato dall’HIV, aggrediscono l’intero organismo.


La pandemia

Venticinque anni dopo le prime segnalazioni, l’AIDS è diventata un’epidemia mondiale; venticinque milioni di persone sono morte dal 1980 e si calcola che, attualmente, vi siano almeno quaranta milioni di persone infette, metà delle quali donne di età compresa tra i quindici e i ventiquattro anni; la diffusione si è attenuata in molti Paesi industrializzati, ma nei Paesi più poveri l’epidemia continua gravissima; ogni giorno si registrano 15.000 nuovi casi, dei quali il 90% nei Paesi in via di sviluppo. Nel 2006 si sono registrate circa 4,3 milioni di nuove infezioni, delle quali più di 500.000 in giovani sotto i quindici anni di età. Le aree maggiormente colpite sono l’Africa subsahariana (in ben sette Paesi i soggetti ammalati superano il 25% della popolazione), l’India, il Sud Est asiatico, con un forte incremento in Cina e nelle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica. L’Italia è il secondo paese in Europa per numero di persone contagiate, dopo la Spagna, con circa 111.000 unità e un numero annuale di nuovi contagi stimato tra i 3000 e i 4000. Essendo fondamentalmente una malattia a trasmissione sessuale, l’infezione da HIV è distribuita in maniera equa tra soggetti di sesso maschile e soggetti di sesso femminile, anche se in alcuni Paesi vi è una prevalenza nei maschi, legata al contagio per via omosessuale.


Modalità di trasmissione

Alcuni studi molto attendibili hanno dimostrato che il virus è passato dal mondo animale (dove è presente come SIV, Simian Immunodeficiency Virus, in alcune specie di scimmie e di primati del continente africano) a quello umano, e da lì si è propagato nei cinque continenti.

L’infezione si può trasmettere attraverso diversi meccanismi: durante un rapporto sessuale (ogni tipo di rapporto e in modo particolare quando sono in atto infezioni genitali), mediante sangue o organi infetti (trasfusioni, trapianti), tramite scambio volontario di siringhe (tossicodipendenza o utilizzo di strumenti non sterili per tatuaggi o piercing), attraverso la puntura o il taglio accidentale con aghi o taglienti infetti (personale di assistenza); infine è possibile la trasmissione da madre a figlio durante la gravidanza, al momento del parto o nel corso dell’allattamento. Gli attuali test hanno permesso di ridurre in modo sostanziale il rischio di infezione da trasfusione. L’infezione, inoltre, non si trasmette con gli ordinari contatti sociali (stretta di mano, uso in comune di stoviglie, bagno e così via). Tutti i ricercatori e gli scienziati concordano nell’affermare che l’HIV non sopravvive nell’ambiente esterno ed è incapace di moltiplicarsi al di fuori dell’organismo umano (salvo in laboratorio), rendendo così estremamente remota l’eventualità di contagio secondo modalità diverse da quelle riportate sopra e virtualmente vicino allo zero la possibilità di contagio dall’ambiente. Non sono infatti noti casi di infezione contratta per contagio indiretto dalle superfici ambientali. Infine, i risultati di lavori sperimentali e di osservazioni indicano che non vi siano motivi di pensare che l’HIV possa essere trasmesso mediante la puntura di insetti.


Diagnosi

La scoperta del virus HIV è stata fondamentale per mettere a punto il test che rivela se una persona si è contagiata. Il test, infatti, mette in evidenza la presenza di anticorpi contro quel virus (HIV–1 e HIV–2) e, contemporaneamente, indica che la malattia è in atto, proprio perché sappiamo che l’organismo umano non riesce (se non in rari casi) a contrastare efficacemente il virus; il soggetto è pertanto “sieropositivo” e se andiamo, con analisi successive, a ricercare il virus, tale analisi risulterà sempre positiva. Esiste un test HIV di primo livello (ELISA) che viene normalmente utilizzato nei laboratori e che in caso di positività va confermato con un test di secondo livello (Western Blot); i test ELISA oggi utilizzati sono molto affidabili ma esiste la possibilità di falsi positivi ed è proprio per tale motivo che ogni test positivo ne richiede sempre uno di conferma, che invece non ha virtualmente possibilità di errore. L’ELISA diviene positivo in media entro dodici settimane dal contagio; solo in rarissimi casi occorrono fino a sei mesi.


Trattamento

Negli ultimi quindici anni l’HIV/AIDS è stata la malattia che ha beneficiato più di qualunque altra dei progressi della ricerca: sono stati sviluppati farmaci talmente efficaci che la patologia è passata da mortale a cronica in brevissimo tempo. La strategia è quella di aggredire il virus in più punti del suo sistema replicativo, distruggendolo sistematicamente, andando a interferire con alcuni enzimi fondamentali, come la trascrittasi inversa, la proteasi e l’integrasi, o con alcuni meccanismi di ancoraggio alle cellule bersaglio o di penetrazione nelle stesse. Si utilizzano contemporaneamente almeno tre farmaci (triterapia). L’efficacia della terapia può essere messa in evidenza e strettamente controllata attraverso il cosiddetto test della carica virale (dosaggio del RNA virale) che è disponibile da circa dieci anni e permette di dosare la “quantità” di HIV presente nel sangue. Il virus tende a non essere più rilevabile nel sangue dopo alcuni mesi di terapia assunta con grande regolarità e tale situazione può protrarsi per moltissimi anni; purtroppo, però, ciò non significa che il virus sia scomparso dall’organismo, come inizialmente si era ipotizzato; bastano infatti alcune settimane di interruzione della terapia per vedere ricomparire l’HIV nel sangue (la carica virale diventa nuovamente rilevabile). Questo fenomeno è stato ampiamente studiato e si è osservato che il virus si nasconde in alcune cellule o in alcuni organi del corpo umano (i cosiddetti santuari) che sono impenetrabili ai farmaci oggi in uso; proprio da quei siti il virus riprende a svilupparsi, una volta che la terapia viene interrotta. Per quanto mirate a combattere il virus, le terapie presentano effetti collaterali che tendono ad accumularsi nel tempo. I danni maggiori possono essere soprattutto metabolici (in particolare sul metabolismo degli zuccheri e dei grassi e sul sistema energetico di molte cellule), gastrointestinali ed epatici (aggravati questi ultimi dalla contemporanea presenza della epatite C, molto frequente nei soggetti sieropositivi europei). È fondamentale pertanto che la cura sia gestita in forte sinergia tra medico e paziente e impostata e seguita da équipe di grande esperienza, nelle quali a volte risulta fondamentale anche la presenza di uno psicologo; infatti, dopo qualche anno, può subentrare la “fatica terapeutica”, ossia quella condizione caratterizzata da repulsione alle cure e dalla predisposizione a una scarsa aderenza ai trattamenti e agli esami di controllo. [P. C.]