Schizofrenia: cos’è, sintomi, cause, trattamenti

Si tratta di un disturbo mentale complesso, a genesi multifattoriale, che si manifesta con sintomi cognitivi, emotivi e comportamentali. Pur essendo una condizione grave e spesso progressiva, con un approccio terapeutico integrato è possibile migliorare il funzionamento quotidiano e la qualità della vita



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Una recente intervista rilasciata da Cesare Cremonini al Corriere della Sera ha acceso il dibattito pubblico. Il cantautore bolognese ha raccontato di convivere con una lieve forma di schizofrenia, descrivendo un percorso terapeutico che, a suo dire, gli avrebbe restituito equilibrio, consapevolezza e serenità quotidiana.
Le sue parole hanno immediatamente sollevato interrogativi: che cosa significa convivere con la schizofrenia? E quanto è frequente che persone con un funzionamento intellettivo e creativo così elevato siano affette da questa condizione?

«È molto improbabile che una persona affermata come Cremonini soffra realmente di schizofrenia», commenta la dottoressa Cristina Toni, psichiatra presso il Centro Medico Visconti di Modrone.

«Spesso assistiamo a diagnosi improprie: per esempio, soggetti con disturbo bipolare che in alcune fasi presentano sintomi psicotici vengono talvolta etichettati come schizofrenici. Allo stesso modo, persone con forme di autismo ad alto funzionamento o sindrome di Asperger possono mostrare difficoltà nelle relazioni, rigidità comportamentale e problemi di reciprocità, caratteristiche che possono ricordare alcuni aspetti della schizofrenia. La differenza fondamentale, però, è che questi individui possiedono spesso un alto quoziente intellettivo e un grande potenziale cognitivo, per cui il loro funzionamento generale resta preservato, a differenza di quanto accade nelle forme classiche di schizofrenia, che comportano un progressivo deterioramento».

Cos'è la schizofrenia

La schizofrenia è una condizione complessa, riconosciuta dalle principali classificazioni diagnostiche internazionali. «Oggi la definiamo un disturbo mentale grave, ma la sua storia affonda le radici nel XIX secolo, quando i primi studiosi tentarono di comprenderne la natura osservandone l’evoluzione nel tempo», racconta la dottoressa Toni. «All’epoca venne descritta come dementia praecox, cioè una demenza precoce destinata a peggiorare in modo progressivo. Il nome metteva l’accento su un destino considerato inevitabile, soprattutto perché i primi sintomi comparivano spesso nella tarda adolescenza o all’inizio dell’età adulta, quando la vita dovrebbe aprirsi e non restringersi».

Agli inizi del Novecento lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler propose una nomenclatura diversa, destinata a sostituire la precedente: schizofrenia. La parola, che etimologicamente richiama una scissione della mente, voleva descrivere qualcosa di più profondo del semplice peggioramento clinico. «Bleuler osservò che molte persone con schizofrenia vivevano un impoverimento emotivo e cognitivo», continua la dottoressa Toni. «Diventava difficile provare emozioni, prendere iniziative, mantenere interessi e legami. Compariva un distacco dagli altri e una sorta di rallentamento interiore che cambiava il modo di percepire la realtà».

Oggi sappiamo che la schizofrenia non è uguale per tutti. Può manifestarsi con livelli molto diversi di intensità e con sintomi che variano da persona a persona, ma ciò che accomuna le diverse forme è l’impatto profondo sulla vita quotidiana: sulla capacità di comprendere il mondo, di comunicare, di costruire relazioni. È una condizione che la scienza continua a studiare con attenzione e che, da oltre un secolo, rappresenta una delle sfide più complesse della psichiatria moderna.

La schizofrenia potrebbe cambiare nome

Negli ultimi anni intorno al termine schizofrenia si è aperto un ampio dibattito. La parola porta con sé un’eredità pesante, perché alimenta uno stigma che ancora oggi pesa molto su chi riceve questa diagnosi. Non solo: il concetto stesso di schizofrenia è stato spesso utilizzato in modo improprio, arrivando a includere qualsiasi persona manifesti deliri o allucinazioni, anche quando questi sintomi hanno origini diverse.

«Molti esperti stanno cercando di ridefinire il modo in cui parliamo di questa condizione», commenta la dottoressa Toni. «Alcuni propongono addirittura di abbandonare il termine schizofrenia, ritenendolo troppo limitante e carico di significati negativi. In Giappone, ad esempio, è stata introdotta una nuova etichetta, parlando di disturbo dell'integrazione. Altri studiosi hanno suggerito definizioni come disturbo della sintonia, nella speranza di restituire un’immagine più accurata e meno stigmatizzante».

L’obiettivo non è solo trovare un nome più accettabile, ma arrivare a descrivere con maggiore precisione la natura reale della condizione. La terminologia ufficiale è ancora in uso, ma il dibattito è aperto e in continua evoluzione, spinto dalla volontà di comprendere meglio la malattia e, allo stesso tempo, proteggere la dignità delle persone che ne vivono l’esperienza.

Quali sono i sintomi della schizofrenia 

I sintomi della schizofrenia non compaiono mai all’improvviso. Di solito avanzano lentamente, quasi in punta di piedi, rendendo difficile capire subito cosa stia accadendo. Le ricerche più recenti mostrano che l'esordio del disturbo è spesso graduale, insidioso e i primi segnali – soprattutto quelli legati alle funzioni cognitive – possono essere presenti molto prima della comparsa dei sintomi più evidenti.

«Se la malattia emerge tipicamente tra i 20 e i 30 anni, è possibile che alcuni segnali di impoverimento mentale ed emotivo si manifestino già in adolescenza o addirittura prima», indica la psichiatra. «Per questo oggi molti studiosi considerano la schizofrenia un possibile disturbo del neurosviluppo, una condizione che affonda le sue radici molto presto, persino durante la vita fetale, e che con il tempo diventa più chiara e riconoscibile».

Il tratto più caratteristico è un lento impoverimento della capacità di “funzionare” nella vita quotidiana. Le persone iniziano a faticare a scuola, sul lavoro, nelle relazioni. Ciò che prima era semplice - uscire, incontrare amici, affrontare impegni - diventa sempre più difficile. «Lentamente si isolano, riducono i contatti con l’esterno, talvolta li rifiutano del tutto, come se il mondo diventasse troppo complicato o minaccioso da gestire», spiega la dottoressa Toni.

Accanto a questo ritiro progressivo, compaiono i sintomi più noti, chiamati sintomi positivi. Sono manifestazioni aggiuntive rispetto al normale funzionamento mentale, come i deliri e le allucinazioni. «I deliri sono convinzioni forti ma prive di basi reali, idee che la persona vive come assolutamente vere», precisa l’esperta. «Le allucinazioni, più spesso uditive, si presentano invece come voci che parlano, commentano o comandano, anche se nessun altro le sente».

Quali sono le cause della schizofrenia 

Oggi la ricerca parla di un modello multifattoriale, un intreccio complesso in cui genetica, sviluppo cerebrale, ambiente e fattori psicologici interagiscono tra loro, contribuendo in modo diverso all’insorgere del disturbo.

Gli studi genetici, per esempio, mostrano che esiste una certa familiarità: avere un parente con schizofrenia aumenta il rischio, ma non esiste un unico gene responsabile. «Parliamo di rischio poligenetico», sottolinea la dottoressa Toni. «Molti geni, ciascuno coinvolto in funzioni importanti del cervello, possono avere piccole variazioni di espressione in chi svilupperà la malattia. Piccoli tasselli che, messi insieme, contribuiscono a creare una vulnerabilità di fondo».

Accanto alla genetica, un ruolo fondamentale è giocato dai neurotrasmettitori, come la dopamina e il glutammato. «Queste sostanze guidano il dialogo tra i neuroni e regolano funzioni cruciali del pensiero, delle emozioni e del comportamento», riprende l’esperta. «Alterazioni nei loro circuiti sono state osservate con costanza nei pazienti con schizofrenia, così come alcune modifiche nella struttura del cervello: ricerche di neuroimaging mostrano, ad esempio, una riduzione del volume di aree come l’ippocampo e la corteccia prefrontale».

Anche ciò che accade prima della nascita o durante il parto può contribuire a creare una vulnerabilità. Un’infezione materna, un forte stress in gravidanza o complicazioni perinatali - come una temporanea riduzione dell’ossigenazione del cervello del neonato - sono fattori che gli studiosi stanno osservando con crescente attenzione.

Durante l’adolescenza, poi, il cervello attraversa una fase di profondo riassetto: è il periodo della cosiddetta “potatura sinaptica”, un processo naturale attraverso cui le connessioni neuronali vengono perfezionate ed eliminate se non necessarie. «Quando questa potatura è eccessiva, può influire sul rischio di sviluppare la schizofrenia, contribuendo a creare una base neurobiologica più fragile», aggiunge la dottoressa Toni.

Infine c’è l’ambiente, con tutto il peso che può esercitare. Eventi stressanti, traumi, isolamento sociale, condizioni di povertà o migrazione possono aumentare il rischio, soprattutto in chi ha già una predisposizione biologica. Anche l’uso di sostanze, in particolare della cannabis ricca di THC (Delta-9-tetraidrocannabinolo), può avere un ruolo: non provoca la malattia, ma in persone vulnerabili può anticipare o facilitare l’emergere dei sintomi. «Lo stress, inoltre, agisce sui sistemi infiammatori del corpo e proprio l’infiammazione è considerata un altro possibile tassello del puzzle», ammette la psichiatra.


Come si diagnostica la schizofrenia

La diagnosi di schizofrenia non si basa solo su ciò che una persona presenta nel momento della visita. «Se ci limitassimo a osservare i sintomi attuali, il rischio di sbagliare sarebbe molto alto», spiega la dottoressa Toni. «Deliri, allucinazioni e pensiero disorganizzato possono comparire anche in altri disturbi, come il disturbo bipolare o la depressione grave. Ecco perché la valutazione deve essere sempre ampia e soprattutto longitudinale: è necessario ricostruire la storia della persona, capire com’è cresciuta, com’è stato il suo sviluppo cognitivo e sociale, quali difficoltà erano presenti già durante l’infanzia o l’adolescenza».

Lo specialista deve quindi raccogliere informazioni sulla familiarità, osservare come la persona si muove e si coordina, valutare il rendimento scolastico passato e la qualità delle relazioni con i coetanei. «Piccoli segnali come problemi di coordinazione motoria o difficoltà nelle interazioni sociali possono essere indizi importanti», ammette l’esperta.

Gli esami strumentali hanno invece un ruolo cruciale nella diagnosi differenziale. La risonanza magnetica o la PET permettono di individuare eventuali cause di una psicosi secondaria, escludendo lesioni, infiammazioni o altre alterazioni cerebrali. Nella schizofrenia, soprattutto in alcune forme come quella definita ebefrenica, la risonanza può mostrare una riduzione del volume di diverse aree del cervello, come i lobi frontali o l’ippocampo. È un dato che può orientare il clinico, ma non è mai sufficiente da solo: va sempre interpretato insieme all’anamnesi familiare, allo sviluppo cognitivo e sociale e ai sintomi attuali.

Come si cura la schizofrenia

La terapia della schizofrenia è sempre integrata e combina trattamenti farmacologici e interventi riabilitativi mirati, così da sostenere la persona sotto più punti di vista.

I farmaci antipsicotici rappresentano il cardine del trattamento. Esistono molecole di vecchia generazione, utilizzate ormai da decenni, e farmaci più moderni, meglio tollerati e con un profilo di effetti collaterali più leggero. «Il loro scopo principale è ridurre i sintomi “positivi”: deliri, allucinazioni, alterazioni del pensiero e del comportamento», racconta la dottoressa Toni. «Molti di questi farmaci aiutano anche a contenere stati di agitazione, restituendo alla persona una maggiore stabilità interiore. Ma vanno usati con grande attenzione: dosaggi troppo elevati o combinazioni improprie tra più antipsicotici possono accentuare l’impoverimento emotivo e cognitivo, proprio quello di cui la schizofrenia si nutre quando non è trattata correttamente. Per questo serve un monitoraggio costante e accurato, insieme a una valutazione attenta degli effetti collaterali».

Accanto ai farmaci, un ruolo fondamentale lo svolgono gli interventi riabilitativi. Molte persone con schizofrenia hanno difficoltà nelle relazioni, nel funzionamento quotidiano, nel mantenere un ritmo di vita stabile. I percorsi di riabilitazione – dalle attività creative ai laboratori di socializzazione, fino ai programmi più strutturati – aiutano a ricostruire la reciprocità, a rianimare il contatto con gli altri e a valorizzare le capacità residue, spesso ancora presenti ma sommerse. «In alcuni casi vengono organizzate esperienze professionali protette, in ambienti dove la persona può sentirsi sostenuta e non sotto pressione», tiene a precisare l’esperta. «Figure specializzate, come tutor o educatori, accompagnano questo percorso, monitorando il benessere della persona e intervenendo se qualcosa rischia di creare stress o destabilizzazione».

Il senso complessivo è quello di costruire un equilibrio: con le cure adeguate, un contesto protetto e un lavoro costante sulle abilità sociali e personali, molte persone con schizofrenia possono condurre una vita dignitosa e, in alcuni casi, sorprendentemente stabile.


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