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Come stare vicino a un malato terminale

Accompagnare un familiare verso la fine è difficile e doloroso. Ecco i consigli del fondatore del celebre Zen Hospice Project

credits: istock




Tommy entra nella stanza dove è appena spirata la mamma e domanda al dottor Frank: «Può sentirmi?», «Non so se lei può sentirti. Ma tu puoi sentire lei. Che cosa desidererebbe la tua mamma? E tu, come vuoi salutarla?». Tommy si china sul volto e le soffia sopra. Forse vorrebbe rianimarla con una sorta di “pensiero magico” che hanno solo i bambini. Puoi comincia ad annusarla da capo a piedi. E così che fanno anche i cuccioli di cerbiatto quando muore un genitore.

È una delle testimonianze raccolte nel libro I cinque inviti di Frank Ostaseski, il medico californiano che nel 1987 ha fondato a San Francisco lo Zen Hospice Project per accogliere malati terminali di ogni età, provenienza ed estrazione sociale.

Sorge di fronte a un centro di monaci buddisti che vanno e vengono dall’hospice non per indottrinare ma rendersi utili: preparare una zuppa o lavare i panni sporchi.

A Frank Ostaseski, in l’Italia per presentare il suo libro, abbiamo rivolto alcune domande per aiutarci a vincere il tabù della morte e capire come comportarci quando siamo chiamati a vivere l’esperienza di accompagnare un proprio caro verso la fine.


Come affrontare il dolore?

«Per prima cosa, non rimandare le cose che vuoi dire o fare per il tuo caro. Non essere indifferente al dolore, non parlare del tempo, della scuola o del lavoro, ma esprimi a voce la gratitudine che provi per il malato. Molte persone mi hanno riferito: “Mio padre se n’è andato e non l’ho neanche ringraziato per tutto quello che ha fatto per me… Non ho avuto tempo né il coraggio. Rimandavo il commiato parlando d’altro con lui. Poi un giorno sono entrato all’hospice ed era troppo tardi”.

 Ecco, trovare il coraggio di esprimere il proprio amore, la propria immensa gratitudine. Il coraggio di perdonare e perdonarsi per tutte le cose rimaste in sospeso, per i vecchi contrasti che ora appaiono remoti, per i progetti iniziati e abbandonati, per quello che avreste potuto fare e non avete mai fatto. Non torturarsi e dire addio ai sensi di colpa e ai rimpianti che non servono a nulla, se non a macerarsi ancora di più».


È importante cercare di distrarsi?

«No, non funziona. Il mio secondo invito è: accogli tutto, non respingere nulla. L’ondata di dolore arriva, ti travolge: devi prepararti ad accoglierla. Non cercare di schivarla, non distrarti, non opporre resistenza, perché più la respingi più ti soffocherà. Permetti al tuo corpo di farti attraversare dal dolore, per trasformarlo. Scoprirai in te e nella persona che sta per morire delle risorse straordinarie. Se ascolti il tuo cuore saprai come comportarti».


Come alleviare l’angoscia del malato?

«Non esistono formule perché ogni malato è un caso a sé e ha esigenze diverse. La cosa migliore è avere un atteggiamento aperto e “non giudicante” (“prendi le gocce”, “fatti alzare il letto”, “guarda un po’ di tv”) in modo da entrare realmente in sintonia con i sentimenti della persona cara, capire che cosa le fa piacere per assecondarla. 

Nella mia trentennale esperienza ho fatto di tutto: ho cullato sull’amaca un ragazzo affetto di Aids che non trovava pace perché, scuotendogli un po’ le gambe, ho intuito che il movimento ritmico del cullaggio lo calmava. E ho accompagnato l’agonia di una donna che respirava in modo sincopato, cercando di allungare la pausa tra un’inspirazione e un’espirazione.

Abbiamo respirato insieme, le due teste sul cuscino, mano nella mano, finché non se n’è andata. Alcuni pazienti amano essere toccati e massaggiati, altri no. Alcuni vogliono “sistemare” tutto prima di andarsene, altri vivono già in un mondo trasognato dove i soldi, gli averi, i ruoli sono alle spalle.

 Spesso ho chiesto: “Se uscissi un giorno dall’ospedale, che cosa faresti?”. Un ragazzo avrebbe voluto rivedere la spiaggia dove faceva surf. Sono andato, l’ho ripresa e ho proiettato il video sulle pareti.

Ma non bisogna forzare le cose. Alcune parenti insistono per far rivivere i ricordi alla persona amata: lo sommergono di fotografie o di cd con le sue canzoni preferite, anche quando ha già trovato la forza di incanalarsi, da sola, verso la via di non ritorno. Vorremmo riportarla in vita, quando è già scivolata altrove. Lasciamola andare, non tratteniamola».


Cosa si può fare per stare meglio?

«Solo se siamo presenti a noi stessi possiamo offrire a chi sta male la nostra presenza compassionevole. Oggi siamo travolti dagli impegni e non ci fermiamo mai a pensare: chi sono? Che cosa voglio? Dove sto andando? La parentesi di sospensione tra la vita e la morte è un’ottima occasione per fermarci a riflettere. Allo Zen Hospice Project offriamo sia al malato che al caregiver la possibilità di meditare insieme a noi: alcuni accettano, altri no. E noi lasciamo la massima libertà».


Quale meditazione è più utile?

«Se dico Zen nell’immaginario collettivo spunta un muro bianco di fronte al quale sedere a gambe incrociate, nella posizione del fiore di loto. Ma pochi sanno che cosa significhi. 

Per questo preferisco parlare di “meditazione di consapevolezza” che può essere fatta anche sdraiati, in camera da letto. Ci si sintonizza con il respiro, si ascolta il flusso, si entra in contatto con il nostro corpo, le nostre emozioni, le tensioni che abitano in noi».


Servono le visualizzazioni?

«Alcune possono aiutare in questa full immersion dentro noi stessi. Si possono immaginare i pensieri come delle nuvole che scorrono lentamente nel cielo, mentre da sotto appare uno spiraglio di sole. Oppure ci si può vedere seduti su un sasso osservando il tourbillon di pesci e di correnti che sbattono contro gli scogli… Non è facile, lo so. Il vuoto mentale è il traguardo finale, non l’inizio, di una meditazione. E per raggiungerlo possono volerci anni. L’importante è darsi tempo».


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Articolo pubblicato sul n. 28 di Starbene in edicola dal 27/6/2017

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