Il perfezionismo è la tua ossessione? Davanti allo specchio inizia il primo check della giornata. Si comincia dal look: togli un capello dal vestito. Elimini una piccola macchia di polvere da una scarpa. Make up: sfumi quell’ombretto sull’occhio destro, leggermente più scuro di quello a sinistra. Unghie: fatte ieri. Borsa: abbinata ai colori dell’outfit. Tutto perfetto, puoi finalmente uscire. Arrivata in ufficio, l’orario della riunione è stato spostato. Inizi a irritarti. Nel frattempo, la tua scrivania è stata invasa da nuovi documenti appoggiati dalla collega e, infine, il lavoro che hai richiesto di finire il giorno prima è ancora da completare. Stai per esplodere, ti contieni.
La giornata passa, tra imprevisti e routine. Torni a casa, tuo figlio ha sparso fogli e appunti di scuola in cucina, tuo marito ha lasciato le scarpe in salotto. Ti siedi e, a quel punto, il drago si libera dalle catene. La rabbia contenuta durante il giorno diventa lava incandescente che esonda senza controllo su tutto ciò che hai intorno. Litighi anche con il gatto e non ti resta che infilarti a letto esausta. La giornata tipo della perfezionista è finita.
Abbiamo chiesto a Giorgio Nardone, psicoterapeuta e cofondatore del “Centro di psicoterapia strategica” di aiutarci a capire il profilo psicologico di chi ha la smania dell’ordine e come liberarsi dall’ossessione.
Chi è la perfezionista?
«Una donna innamorata del controllo (ovviamente ci sono anche molti uomini con questa caratteristica). Secondo la perfezionista c’è solo un modo di fare le cose in maniera corretta: il suo. Questa convinzione la rassicura e la mette al riparo dagli incidenti di percorso. Dà il massimo negli studi e sul lavoro, è scrupolosa nei dettagli, è in grado di occuparsi di più task in modo spesso ineccepibile e in famiglia è in grado di pianificare, organizzare e gestire la routine in maniera efficiente. Ma solo a un patto».
Quale?
«Che tutto venga eseguito secondo le sue regole. Per lei, il paradiso, il Nirvana, la pace assoluta è costituita da un universo dove tutti seguono le leggi costruite a misura delle sue idiosincrasie. Non è in grado di percepire e accogliere le opinioni altrui, né riesce a farsi da parte di fronte a modalità d’azione differenti. Difficilmente riesce a convivere senza imporre il suo modo di vedere le cose».
Ma come fa ad aver relazioni equilibrate con gli altri?
«Non ce le ha. Perché è analitica, razionale, spesso anaffettiva e non riesce a entrare in empatia con il prossimo. Passa parecchio tempo, infatti, a rimproverare, insegnare e a correggere chi gli sta intorno. In genere questo tipo di personalità è affetta anche da overthinking: pensa e rimugina su quello che ha fatto, su come lo ha fatto, si ripropone di farlo meglio, fantastica di rifarlo al top. Il problema è che la griglia di regole che si è costruita non vale solo per se stessa. Vuole imporle anche al mondo circostante: ai familiari, ai colleghi, agli amici. Se si incastra con personalità più deboli, che facilmente si sottomettono, o masochiste, per qualche tempo le cose possono funzionare. Poi, inevitabilmente, (e per fortuna) arriva il crack. E improvvisamente tutto crolla, come un castello di carte».
Per fortuna?
«Sì, questa è la sua salvezza. La perfezione non esiste, né in natura né in laboratorio. Possiamo tentare di avere sempre tutto sotto controllo, ma la verità è che siamo soggetti al caso e agli imprevisti e, in personalità di questo tipo, che rientrano nel quadro degli ossessivo-compulsivi, il processo di guarigione è innescato proprio dal fallimento.
Essendo un’accentratrice, spesso non si fida del lavoro altrui (“nessuno è in grado di farlo meglio di me”) e, perciò, fa il triplo degli altri (e spesso con scarsi risultati): e così arriva il burnout, si schianta. Al pari, un insuccesso (come un licenziamento, una separazione, un grave errore sul lavoro) crea una ferita profondissima. In genere l’effetto più grave dal punto di vista psicologico è la manifestazione di una depressione severa. Ma è dalla crisi che si può iniziare un percorso di terapia incentrato sull’accettazione di sé e degli altri per come sono, in tutta la loro fallibilità».
Da dove si comincia?
«Con un semplice esercizio. Iniziando a introdurre una piccola variazione nel comportamento impeccabile del perfezionista, che può essere evitare di chiudere il tubetto del dentifricio o resistere alla tentazione di fare un’osservazione a un collega. Un piccolo disordine all’interno di un ordine globale che funziona sulla base dell’entropia dei sistemi viventi: un evento inaspettato rompe uno schema e lo fa evolvere in un risultato migliore.
Introdurre un imprevisto “calcolato” ci serve ad hackerare il sistema di sicurezza della perfezionista per riuscire a convincerla che più inseguirà la perfezione, più incorrerà nel suo contrario. Così si crea l’effetto Butterfly della teoria della catastrofe, il colpo d’ala di una farfalla in grado di innescare un uragano a 3000 km di distanza di tempo. Ogni giorno può chiedersi: cosa scelgo di non correggere ora? Dopo una settimana, può iniziare a raddoppiare la dose con due omissioni (che siano azioni degli altri o proprie). Coltivando piano piano l’imperfezione».
Perfezionismo, un disagio con diverse facce
«Il perfezionismo, problema diffuso in entrambi i sessi senza distinzioni, può essere lieve o severo», afferma Giorgio Nardone.
«È tipico di una personalità molto analitica, che spesso si concentra sui dettagli e perde di vista la visione d’insieme. Essendo ipercontrollante, il perfezionista fa molta fatica a lasciarsi andare, pianifica perfino il sesso (giorni, orari, ecc.) e proprio per questo è spesso anaffettivo e poco empatico.
Conviverci può essere molto difficile e non è un caso che spesso venga lasciato o tradito perché pretende che il partner si uniformi al suo Olimpo perfetto. Se il disturbo è lieve, si può utilizzare l’ironia e giocare insieme a mitigare la sua precisione ossessiva. Lo stesso vale per chi lavora con un capo perfezionista: si dovrà lavorare molto sulla cooperazione e sulla collaborazione per fargli capire l’importanza delle opinioni altrui senza ledere la sua autorevolezza. Nei casi severi, invece, solo un percorso terapeutico mirato può portare a risultati efficaci».
Se il perfezionismo degenera in dismorfofobia
Uno dei pericoli delle derive ossessive del perfezionismo è la dismorfofobia, una sindrome che colpisce soprattutto le donne e che è caratterizzata dal vedersi in modo distorto, con uno o più difetti lievi che spesso sono solo negli occhi di chi ne soffre.
«Il problema, in questo caso, è che questa dispercezione diventa una vera ossessione: ci si sente orribili e deformi. Ci si isola perché ci sembra che quel difetto imbarazzante sia la prima cosa che vedono gli altri, e dalla solitudine poi si scivola nella depressione. C’è chi corre dal chirurgo plastico per far sparire il “colpevole”, ma quello che succede è che poi non ci si ferma più. Sistemato il naso per esempio, si passa alle labbra e via di seguito. In questi casi la cura più efficace è una psicoterapia mirata.
Io, per esempio, consiglio sempre questo esercizio: ci si mette nudi di fronte a uno specchio e si osservano tutti i difetti che troviamo in noi stessi, dandoci perfino una pagella, un voto per ogni supposta imperfezione. Via via che si compie questo esercizio, si noterà come i voti cambiano di giorno in giorno. È il nostro modo di guardarci che fa la differenza. Alla fine del percorso terapeutico le persone hanno imparato ad amare le loro particolarità, che non sono difetti ma proprio quello che ci rende speciali agli occhi altrui», conclude il dottor Nardone.
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