Immagini alterate dall’intelligenza artificiale sui social: l’impatto psicologico
L’intelligenza artificiale permette la modifica e l’alterazione delle immagini. Ma esistono ancora dei limiti tra verità e finzione? Perché accettiamo quest’ultima?

L'intelligenza artificiale è ormai uno strumento di massa. Come emerso dalle indagini di Ipsos, in Italia il 70% degli utenti la usa per generare testi e foto personali. Applicata all'immagine di sé, l'AI agisce come una sorta di chirurgia estetica senza bisturi, permettendoci di allinearci rapidamente a un ideale estetico irreale.
Ma cosa succederebbe se il proprio volto venisse modificato dall’intelligenza artificiale e poi pubblicato sui social senza che nessuno dei propri follower ne fosse consapevole? Qualche giorno fa ho voluto trasformare questa domanda in un esperimento sociale su Instagram, per testare il comportamento dei miei follower e la percezione della realtà digitale. Ho caricato una mia foto su un tool di AI generativa, chiedendo di ricrearmi in un contesto conviviale, a cena, circondata da commensali. L’AI mi ha restituito un’immagine credibile, ma al contempo palesemente ritoccata: il mio volto era piuttosto alterato. Sebbene mantenessi alcuni tratti, erano spariti tutti i dettagli, le rughe e persino le piccole imperfezioni che mi rendono riconoscibile.
Ho condiviso l’immagine su Instagram e ciò che è successo dopo – o meglio, ciò che non è successo – ha contribuito a generare delle riflessioni profonde.
Conformismo o cecità critica?
L'osservazione più sorprendente del mio esperimento è stata una pioggia di like e il silenzio quasi totale delle persone che mi seguono. Nonostante molti mi conoscessero bene e l'immagine presentasse chiari errori visivi, come mani asimmetriche o pelle eccessivamente levigata, solo una persona ha scelto di scrivere in privato per farmi notare l'alterazione.
Ma quali possono essere le ragioni di quei silenzi? Davanti a un’immagine verosimile e forse fin troppo “perfetta” per essere vera, possono innescarsi varie dinamiche che sollevano alcune riflessioni sulla nostra vulnerabilità digitale. Da una parte, per una sorta di conformismo sociale, si è preferito tacere, magari per paura di apparire inopportuni, di mettere in imbarazzo o per una forma di rispetto verso il contenuto pubblicato. L'impulso al like veloce o all'indifferenza può avere prevalso sul dubbio.
Un’altra riflessione possibile è legata all'assuefazione digitale: l’occhio è ormai disabituato a distinguere il reale dall'artificiale. Abituati a scorrere reel e foto filtrate, le nostre difese critiche si abbassano. La costante esposizione a contenuti perfetti ha innalzato la soglia di ciò che percepiamo come vero e questo fenomeno di accettazione passiva mostra quanto la nostra capacità di pensiero critico venga messa a dura prova dalla costante immersione in un ambiente digitale patinato e iper perfezionato.
Per la neurobiologa Laura Mondino, c’è un’altra macro-motivazione al silenzio dei commenti: «La paura di sbagliare (atelofobia), o fear of getting it wrong, è il timore di dire qualcosa di sbagliato, di risultare imperfetti. Un disturbo che in forme meno severe spinge a non commentare, esprimere il proprio parere e le proprie idee per paura di commettere errori, non essere all’altezza e attirare critiche. Questa paura è spesso correlata al mito della perfezione che è resa più a portata di mano dai filtri che i social mettono a disposizione. I filtri sono vere e proprie maschere digitali che possiamo applicare a noi stessi».
Bias cognitivi che ci rendono vulnerabili all'AI
Il comportamento dei follower può essere spiegato da potenti meccanismi psicologici, noti come bias cognitivi, che ci rendono facilmente manipolabili dalla finzione online:
- Bias di conferma: il nostro cervello non cerca la verità, ma la coerenza con le aspettative. Se un'immagine migliorata rafforza l'idea preesistente che abbiamo di una persona, viene accettata come una sua evoluzione naturale, anche se palesemente ritoccata.
«A proposito del bias di conferma, uno dei motivi principali per cui mettiamo un like non è per dimostrare che ci piace quello che abbiamo visto, ma per rafforzare una nostra idea», riflette la neurobiologa. «Pavese diceva che leggiamo non per farci delle nuove idee ma per avere conferma di cose che pensiamo già. Lo stesso vale per i like, mettiamo mi piace a qualcuno che esprime qualcosa come se lo avessimo fatto noi o se esprime gli stessi concetti in cui crediamo».
- Bias di disponibilità: la sovraesposizione a contenuti ritoccati e perfezionati sui social abbassa la soglia di "normalità". Più vediamo l'artificiale e l'impeccabile, più lo percepiamo come autentico e frequente.
- Bias di autorità: non crediamo solo all'autore del contenuto, ma al gruppo. Se decine di persone mettono un like senza commentare, quel silenzio collettivo viene interpretato come una validazione implicita: "se tutti lo accettano, deve essere vero”.
Questi meccanismi, amplificati dall'AI, portano a un collasso del pensiero sfumato, spingendoci verso una polarizzazione netta che, a volte, non lascia spazio al dubbio critico o alla verifica. In un mondo sempre più orientato all’apparenza è importante coltivare la nostra autostima digitale basata sull'accettazione delle nostre specifiche unicità, evitando la sostituzione identitaria messa su un piatto d’argento dall’AI.
Mantenere l'AI come strumento, non come sostituto
L'Intelligenza artificiale è uno strumento potente e ormai lo usiamo tutti, ma quello che forse dovremmo chiederci è se riusciremo a mantenerla nel suo ruolo di ausilio e strumento, senza permetterle di prendere il controllo della nostra percezione e della nostra identità.
La rincorsa alla perfezione ha anche una funzione sociale di protezione. «L’eroe o l’eroina, per essere tali, devono essere perfetti. In questo modo la competizione è esasperata e la fragilità è negata», dice la dottoressa Mondino. «Sono performance spesso troppo elevate per la vita reale che creano una separazione tra come ci si vede e come si pensa di dover essere (sé imperativo) per seguire i modelli vincenti. Così si rincorre un mito, cercando di non attirare critiche. Quindi meglio essere compiacenti, innescare il principio di reciprocità affinché, quando saremo noi a postare qualcosa di alterato, venga accettato senza critiche e domande».
Coltivare lo spirito critico e l'onestà intellettuale ci rende autentici e presenti a noi stessi, soprattutto in vista di un futuro in cui distinguere la realtà dalla simulazione sarà sempre più difficile. Smettere di porci domande, di osservare, di interrogarci sulla veridicità di ciò che vediamo, rischia di renderci manipolabili e controllabili dai nostri stessi pregiudizi, amplificati dagli algoritmi.
L'unica vera rivoluzione possibile, dopo quella digitale? Forse sarà l'autenticità e riuscire a porsi dei confini sani nell’uso di strumenti utili, ma per fortuna non indispensabili. La scelta è ancora nelle nostre mani.
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