Dentro una rage room: una stanza per sfogare la rabbia
Le rage room sono stanze appositamente allestite dove si possono distruggere oggetti per buttare fuori la rabbia o, più in generale, lo stress quotidiano. Ma tutto ciò è davvero utile per sfogarsi? Ne abbiamo parlato con un’esperta
di Valentina Menassi
Qualche settimana fa ho deciso di entrare in una rage room. Non ero arrabbiata con qualcuno in particolare, né stavo vivendo un momento difficile. Ma avevo voglia di capire, di provare, di sentire sulla pelle cosa significa lanciare una bottiglia contro un muro senza dover chiedere scusa.
Le rage room sono stanze appositamente allestite dove, vestiti di tutto punto con caschi, tute e guanti, si possono distruggere oggetti a piacimento: dai piatti ai televisori alle stampanti e quello che capita a tiro. Un modo apparentemente innocuo per sfogare la rabbia o, più in generale, lo stress quotidiano. Ma davvero questo sistema funziona?
Per capirlo meglio, ho parlato con la Dott.ssa Chiara Baitelli, psicologa, che mi ha raccontato come queste esperienze abbiano una loro logica, e anche una possibile efficacia, se vissute nel modo giusto.
Rage rooms e libertà di espressione
«Le rage room diventano un contenitore dello stress: è come se al loro interno tutto fosse permesso. Questa libertà di espressione dei propri sentimenti è data da alcuni fattori che sono propri di queste esperienze: la non pericolosità sociale dei propri vissuti emotivi conflittuali, l’isolamento in cui si è immersi, il contesto non giudicante, la legittimità di comportamenti che altrimenti sarebbero ritenuti scorretti e bloccati dalla società».
In un certo senso, distruggere oggetti in un ambiente protetto agisce direttamente sul cervello. «Stimola la produzione di ormoni come dopamina ed endorfine. Questo può aiutare ad abbassare quei livelli di stress che molto spesso le persone tendono a reprimere».
I rischi delle rage room
Ma c’è un però, e non è poca cosa. Quando l’esperienza smette di essere occasionale e diventa una consuetudine, si rischia di rinforzare il messaggio sbagliato: «che l’unico modo per sfogare la propria rabbia sia quello di affidarsi a espressioni violente, impulsive. È come se vadano a consolidare un ciclo di aggressività, non permettendo poi di vedere alternative più sane con cui arrivare allo stesso risultato».
Il sollievo, infatti, è reale ma temporaneo. «Distruggere oggetti evita che la rabbia venga espressa all’esterno in tempi e modi inappropriati, soprattutto esponendo il soggetto al giudizio e alla critica sociale. In tal senso, si evita quindi un uso dell’aggressività lesiva per sé o per gli altri».
Ma se tutto si ferma lì, se non si lavora su ciò che quella rabbia la genera davvero, si resta intrappolati in un meccanismo pericoloso: «Il rischio è che si crei una sorta di dipendenza. Ogni volta che si prova ansia o frustrazione, si sente il bisogno di tornare nella stanza. Ma la rabbia, fuori, resta».
Risolvere la rabbia e il senso di frustrazione è possibile
C’è un modo per uscirne? Sì. E forse, è anche più semplice di quanto sembri. «Il primo passo è riflettere su ciò che fa arrabbiare. Bisogna partire dall’ascolto: capire cosa fa arrabbiare davvero, quali situazioni si ripetono e quali pensieri si continuano ad avere» dice l'esperta.
Parlare con qualcuno, scrivere, mettere ordine tra emozioni e pensieri è già un primo passo concreto. Poi è fondamentale anche intervenire sul corpo: respirare, muoversi, scaricare la tensione fisica. La rabbia è una forma di attivazione, e va controllata e portata giù, spenta. Quando si impara a farlo, è possibile anche prendere le distanze da ciò che succede dentro di sé.
E se si avverte che quell’energia ha ancora bisogno di uscire, bisogna trasformarla: creare, per esempio dipingere o scrivere. Non distruggere, quindi, ma costruire qualcosa da cui ripartire. «Queste forme di gestione permettono di arrivare allo stesso risultato, ma senza violenza. Senza bisogno di rompere nulla. E, soprattutto, costruendo qualcosa», conclude l'esperta.
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