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Tumore al seno: le guarigioni sono sempre più frequenti

Chirurgia, radioterapia, chemioterapia, farmaci biologici e terapie ormonali: sono tanti i trattamenti clinici che hanno reso questa diffusa forma di cancro una delle più curabili. Ecco le ultime scoperte

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Le guarigioni sono sempre più frequenti e la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è cresciuta fino all’87%: ecco perché ammalarsi di tumore al seno oggi fa meno paura.

Il dato emerge dalla nona edizione del volume I numeri del cancro in Italia, appena pubblicato grazie alla collaborazione tra Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) e Airtum (Associazione italiana dei registri tumori). «Oggi, anche grazie ai programmi di screening per la diagnosi precoce, il 75-80% delle donne scopre la malattia in uno stadio iniziale, quando le possibilità di cura e guarigione sono alte», spiega il professor Massimo Di Maio, direttore della Scdu-Oncologia dell’Ospedale Mauriziano di Torino. «Spesso il primo passo è l’intervento chirurgico, pianificato in base ad alcune caratteristiche soggettive: età della paziente, forma e dimensioni della mammella, posizione e dimensioni del nodulo, tipologia di cancro». In generale, comunque, da trent’anni a questa parte la chirurgia è sempre più orientata verso un approccio conservativo. Ma anche qualora la mastectomia totale, cioè l’asportazione di tutta la mammella, non possa essere evitata, la chirurgia estetica e quella plastica ricostruttiva possono sempre intervenire per restituire bellezza al seno. Non è solo un fatto estetico: il recupero psicologico legato alla percezione del corpo rafforza anche la convinzione di aver superato la malattia.


Le nuove frontiere farmacologiche
Dopo l’intervento chirurgico, il tessuto asportato viene analizzato al microscopio per valutare l’opportunità di intraprendere ulteriori trattamenti, definiti adiuvanti. Anche in assenza di malattia “visibile”, infatti, possono essere proposte terapie con lo scopo di ridurre il rischio di recidive a livello locale e generale, mirate a colpire le cellule tumorali residue, cioè rimaste eventualmente nell’organismo dopo l’intervento di asportazione. «Numerosi sono poi i trattamenti che possono essere utilizzati indipendentemente dall’intervento chirurgico, nei casi di malattia avanzata, quando la chirurgia non è possibile o consigliabile», tiene a precisare Di Maio. «Si può ricorrere alla radioterapia, per esempio, oppure a farmaci scelti in base alle caratteristiche della patologia. Se il tumore è sensibile all’azione di estrogeni e progesterone, vengono valutate le terapie ormonali; in caso contrario, si opta per i chemioterapici. E, per gestire gli eventuali effetti collaterali, sono stati messi a punto trattamenti di supporto davvero efficaci».


La target therapy
Un capitolo a parte è rappresentato dalla target therapy, cioè dai farmaci biologici (o intelligenti) che agiscono in maniera selettiva sulle cellule tumorali, risparmiando quelle sane. Fra i primi a essere apparsi sulla scena terapeutica c’è il trastuzumab, diventato la punta di diamante per quelle donne il cui tumore al seno produce una proteina chiamata HER2 (sono circa una su quattro). «Aggiunto alla chemioterapia adiuvante, ha dimostrato di aumentare le probabilità di guarigione», spiega Di Maio.

«Ma ci sono farmaci biologici anche per quelle donne che devono fare i conti con malattie a uno stadio più avanzato, spesso con metastasi, dove lo scopo del trattamento non è più la cura definitiva del tumore, ma rallentarne o bloccarne la progressione». Qualunque sia la scelta terapeutica, il medico tiene sempre conto dello stato di salute generale e dell’età della paziente: ogni cura va sempre personalizzata, in modo da indurre la minore tossicità.


Anche gli esami si personalizzano
“Personalizzare” è un termine che sentiremo pronunciare spesso. «Oggi è quasi impossibile fare a meno della genetica per scegliere il farmaco più adatto in una determinata paziente, ma anche per mettere in atto un adeguato programma di controllo e prevenzione», interviene il professor Paolo Marchetti, direttore del reparto di oncologia dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma e presidente della Società italiana medicina personalizzata. «Per il tumore al seno, i sorvegliati speciali sono certamente i geni BRCA1 e BRCA2, correlati a un maggiore rischio di sviluppare questa neoplasia, ma esiste un’ulteriore gamma di indagini che consente di valutare la personale risposta alle terapie, la maggiore o minore capacità di smaltire un certo farmaco, il rischio che questo interagisca con altri medicinali assunti dalla paziente, la possibilità che una cura induca effetti tossici a carico di un organo piuttosto che di un altro».


Il microbiota intestinale
In questa visione a 360 gradi, sta prendendo piede anche lo studio del microbiota intestinale: più ricerche, infatti, hanno dimostrato come l’alterazione della flora batterica (disbiosi) possa avere un ruolo nel predisporre certe donne al cancro del seno, e nel renderlo più aggressivo.

«Vista la mole di dati da tenere in considerazione, si stanno diffondendo i Molecular tumor board, team multidisciplinari che mettono a confronto diverse figure professionali per consentire agli specialisti sia una corretta interpretazione delle informazioni genetiche e molecolari, sia una discussione collegiale dei casi clinici di particolare complessità, allo scopo di scegliere di volta in volta il trattamento con le migliori chance terapeutiche», racconta il professor Marchetti. «A breve, all’Università La Sapienza, presenteremo un’app dedicata alle pazienti che consentirà loro di comunicare direttamente con i medici e ridurre la necessità di spostamenti, gestendo meglio il percorso di cura anche dopo l’intervento chirurgico».


La riabilitazione, una fase delicata
«Nonostante le attuali tecniche siano altamente sofisticate, subito dopo l’operazione, o anche a distanza di anni, possono insorgere alcuni disturbi», spiega il professor Antonio Russo, ordinario di oncologia medica presso l’Università degli studi di Palermo e direttore della Uoc di oncologia medica presso il Policlinico Giaccone. «Per esempio, a causa del ristagno di sangue o liquido linfatico, l’area intorno alla ferita e al cavo ascellare può gonfiarsi, provocando dolore e fastidio. Si tratta di segni che tendono ad attenuarsi nell’arco di qualche settimana, fino a scomparire del tutto, ma può essere utile esercitare massaggi con apposite creme elasticizzanti».

L’intervento può causare anche un trauma ai nervi, che si manifesta con rigidità, formicolio e bruciore in corrispondenza della ferita e nella zona di spalla e braccio, per cui un fisioterapista può consigliare esercizi in grado di preservare la mobilità. «Inoltre, con l’asportazione dei linfonodi ascellari può comparire il linfedema, ovvero un accumulo di liquido e conseguente gonfiore del braccio o della mano, che può limitare i movimenti e talvolta sfociare in linfangite, un’infiammazione dei vasi linfatici di origine batterica che causa dolore, arrossamento della pelle, febbre, brividi e dolori muscolari», descrive il professor Russo. «Questi casi si possono prevenire efficacemenete con massaggi, ginnastica dolce, tutori e bendaggi compressivi».


Le attenzioni a casa
Per tutte le pazienti, e fino al completo recupero della mobilità, è strategico seguire un programma a casa facendo alcuni esercizi che, su indicazione medica, possono essere svolti anche da sole. «Si tratta di semplici movimenti di spalle e braccia, da eseguire con una respirazione lenta e profonda, preferibilmente davanti a uno specchio per controllare la posizione del busto e delle spalle», spiega Antonio Russo. Ovviamente, oltre che fisica, la riabilitazione deve essere anche nutrizionale e psicologica. «Con la conclusione dei trattamenti oncologici, termina un periodo molto complesso. È il momento giusto per cercare un nuovo equilibrio e affrontare le proprie paure, imparando a gestire sentimenti come rabbia, depressione, preoccupazione per il futuro e timore che la malattia possa ripresentarsi», continua l’esperto. In questa fase, avvalersi di un supporto psicologico può essere di grande sostegno, così come praticare in modo regolare dell’esercizio fisico. «Lo sport offre un enorme beneficio dal punto di vista emotivo», assicura il professor Antonio Russo. «Perché permette di sviluppare un’immagine positiva del proprio corpo e migliora notevolmente l’autostima. Attività di gruppo come ballo, yoga, stretching e passeggiate all’aria aperta riducono molte delle complicanze dei trattamenti oncologici migliorando notevolmente, al contempo, il benessere psicofisico».


Via la stanchezza

Fra i principali sintomi del tumore c’è la fatigue, una sensazione di stanchezza intensa, persistente, che non migliora con il riposo e rende difficoltose le semplici attività quotidiane. Alcuni interventi farmacologici possono aiutare a contrastarla, ma senza dubbio i migliori risultati si ottengono combinando le terapie con un adeguato sostegno psicologico. Anche se in genere la fatigue cessa spontaneamente, nel corso delle cure è importante concedersi del riposo in più, associato a una moderata attività fisica e a una corretta alimentazione.


Un giro di ballo per stare subito meglio

D4O sta per Dance for Oncology: è il progetto di danzaterapia dedicato ai pazienti oncologici messo a punto da IncontraDonna onlus, in collaborazione con l’Associazione italiana di oncologia medica e la coreografa Carolyn Smith.

Questo nuovo percorso, rivolto a uomini e donne che hanno affrontato o stanno affrontando un tumore, si svolge in 13 scuole di danza (abbinate ad altrettanti Centri oncologici) di Roma, Cagliari, Palermo, Lecce, Napoli, Torino, Milano, Verona, Pisa, Cosenza, Catanzaro, Forlì e Messina. Per 3 mesi, due volte alla settimana, i pazienti possono beneficiare degli effetti positivi del ballo, che numerosi studi scientifici hanno associato a un miglioramento dell’umore, della condizione psico-fisica e a un nuovo entusiasmo per la vita.


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Articolo pubblicato sul n. 43 di Starbene in edicola dall'8 ottobre 2019

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