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Il coraggio di non piacere a tutti: come liberarsi dall’approvazione degli altri

I social amplificano la paura di non essere apprezzati abbastanza. Ma liberarsi dall’assillo dell’approvazione si può. Come insegna un libro

Foto di danielsampaioneto da Pixabay



Da quando la tecnologia ci ha dato due possibilità - estendere all’infinito il numero di contatti e quantificare la popolarità in base ai “like” - paure vecchie come il mondo, come quella di non piacere abbastanza e, quindi, di essere emarginati, sono cresciute in modo smisurato.


Voler piacere a tutti è un'occupazione rischiosa

«Attivarsi senza sosta per essere ammirati e ricercati è irrazionale e improduttivo», osserva Michael Gervais, psicologo americano e coach di atleti, artisti e imprenditori. «Irrazionale perché, per quanto ci sforziamo di omologarci ai gusti altrui, ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge o su cui non abbiamo il controllo. Improduttivo perché ci distoglie da compiti più importanti, in primis essere autentici e realizzarci in base alle nostre potenzialità e desideri».


Buone notizie per chi è stanco

Ben venga, allora, l’ultima tendenza nel settore del self-help, che punta proprio sulla liberazione dall’assillo dell’approvazione: grazie a proposte come la Rejection Therapy (“terapia del rifiuto”, per ora disponibile solo oltreoceano) si impara a non fingersi interessati o in accordo con ciò che lascia indifferenti o ripugna e a mettersi il cuore in pace quando si viene disapprovati.

In Giappone spopola un manuale scritto dal saggista Fumitake Koga e dal filosofo e psicologo Ishiro Kishimi. Da poco disponibile anche in Italia, si intitola Il coraggio di non piacere e si basa su un presupposto semplice: «Ciò che gli altri pensano di noi - se ci apprezzano oppure no - è affare loro, non nostro. E non c’è nulla che possiamo fare per controllarlo».


Un equivoco da chiarire: non dobbiamo convincere gli altri ad amarci

Il segreto per stare bene, sostengono Ichiro Kishimi e Fumitake Koga, non è convincere il prossimo ad amarci, ma essere consapevoli del nostro valore, accettarci in quello che non riusciamo a cambiare e impegnarci a migliorare dove ciò è fattibile. Già, ma come sapere quanto valiamo? Evitando la strada più ovvia, quella di comportarci “bene” così da ottenere degli elogi, che implicano un giudizio da parte di una persona capace nei confronti di una incapace.

Se viviamo in funzione degli elogi, creiamo e sosteniamo relazioni verticali, che ci vedono in posizione di inferiorità. E il nostro valore percepito non ne beneficia.


Il ribaltamento di prospettiva

Per uscire dall’impasse il consiglio è «coltivare relazioni orizzontali, alla pari, nelle quali lo scopo non è piacere, ma essere utili». Ecco allora che la gratitudine che le persone provano per ciò che facciamo - o anche semplicemente per il fatto che ci siamo - nutrirà in modo efficace e genuino il nostro valore.

E se poi la gratitudine non dovesse arrivare, dice lo psicologo, basterà la sensazione che la nostra esistenza e il nostro comportamento siano vantaggiosi per la comunità.

Ma non è finita: quando siamo sicuri di noi stessi, la disapprovazione da temuta diventa motivo di vanto, perché «è la dimostrazione che esercitiamo la nostra libertà e viviamo nel rispetto dei nostri principi».



LE VARIABILI DEL MANCATO “LIKE”

Secondo uno studio del dipartimento di sociologia e antropologia dell’Università statale dell’Illinois, nelle prime fasi di una relazione è malvisto chi fa troppe domande senza essere disposto a dire nulla di sé. La ragione? Rivela sfiducia nel prossimo e volontà di controllo.

«Non se la passa bene neppure chi si comporta in modo opposto, condividendo sin da subito informazioni molto personali», dicono gli stessi ricercatori. «Dà l’impressione di essere insicuro e, in più, mette l’interlocutore a disagio».

Risultano inaffidabil e poco attraenti anche i postatori seriali di selfie scattati a distanze troppo ravvicinate, nei quali i lineamenti appaiono un po’ deformati. «È come se avessero superato la distanza sociale corretta e invaso lo spazio di chi guarda le foto», spiegano dal California Institute of Technology.

Ma non è solo questione di atteggiamenti: uno studio delle università di Lovanio (Belgio), New York e Melbourne sostiene che si può essere giudicati male solo per avere un cognome difficile da pronunciare. Il disagio provato nel dirlo renderebbe sgradito il suo possessore.



Articolo presente nel n° 25 di Starbene, giugno 2019


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