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Vitamina D: quali sono i sintomi che indicano una carenza

Per parlare di un’effettiva carenza di vitamina D bisogna fare le opportune valutazioni. L’unico sintomo realmente evidenziato a livello scientifico è l’osteomalacia. Leggi qui



L’osteomalacia è la principale conseguenza della carenza di vitamina D: si tratta di un difetto di mineralizzazione ossea, più noto come rachitismo quando riguarda i bambini, che rende le ossa fragili e di conseguenza più suscettibili a fratture e malformazioni. «L’osteomalacia può essere asintomatica oppure può causare disturbi come stanchezza, debolezza generale e dolori diffusi, prevalentemente localizzati ai cingoli scapolari e pelvici, cioè al complesso di ossa, muscoli e articolazioni che collegano rispettivamente gli arti superiori al tronco e il tronco alle gambe, permettendone il movimento», spiega il dottor Roberto Cesareo, endocrinologo, responsabile dell’Unità operativa Malattie metaboliche dell’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina. «Si tratta però di sintomi aspecifici e non necessariamente legati a una carenza di vitamina D. Quest’ultima va sospettata, e quindi indagata, solo in casi specifici, come nei soggetti in cura per l’osteoporosi, in chi si espone poco alla luce solare, nei pazienti che hanno una storia di fratture da fragilità ossea, in coloro che presentano un’alterazione della mineralometria ossea computerizzata o nei soggetti ricoverati in case di cura per lungodegenza».

 

Nessun legame certo con le infezioni

Soprattutto negli ultimi anni, durante la pandemia da Covid-19, la carenza di vitamina D è stata spesso correlata a una maggiore frequenza di episodi infettivi: come dire, quando si è carenti, ci si ammala di più. «Il legame con la risposta immunitaria dell’organismo è ancora discusso, perché tutti gli studi che correlano la vitamina D alle malattie extra-scheletriche sono al momento deboli e non hanno ancora stabilito il ruolo di causa-effetto: è la carenza di questa vitamina a predisporre alle infezioni oppure sono le infezioni a provocarne una carenza? Non abbiamo ancora una risposta definitiva», commenta il dottor Cesareo. «C’è addirittura uno studio pubblicato a luglio sul The New England Journal of Medicine che evidenzia come un terzo o più degli adulti statunitensi di età pari o superiore ai 60 anni assuma integratori di vitamina D, senza importanti benefici per la salute. Dunque, a parte l’osteomalacia, al momento non esistono sintomi riconosciuti di carenza».


Quando siamo davvero carenti

Attenzione, però. Perché si possa parlare di un’effettiva carenza, è importante fare le giuste valutazioni. Per misurare i livelli di vitamina D, si può ricorrere a un test denominato 25-idrossi vitamina D, un semplice esame del sangue che ne rivela i valori espressi in nanogrammi per millilitro (ng/mL), ma sul posizionamento dell’asticella come valore soglia esistono pareri divergenti in ambito internazionale: «Nel 2011, il prestigioso Institute of Medicine statunitense l’aveva fissata a 20 ng/mL, ma poco dopo un altro gruppo di autori guidati dal dottor Michael F. Holick l’aveva alzata a 30 ng/mL, definendo “insufficienti” coloro che presentavano valori tra 20 e 30 ng/mL. Questa differenza numerica può sembrare banale e invece alcuni studi epidemiologici hanno evidenziato che se poniamo l’asticella a 20 ng/mL solamente il 30 per cento dei soggetti presenta una carenza di vitamina D, mentre spostandola a 30 ng/mL la percentuale sale all’88 per cento», specifica il dottor Cesareo.

 

La soglia numerica

A mettere ordine nel settore è stata la Nota 96, pubblicata il 28 ottobre 2019 dall’Agenzia italiana del farmaco, che stabilisce quando la vitamina D possa essere prescritta a carico del Sistema sanitario nazionale: «In quel documento è stato recepito il valore di 20 ng/mL come livello sotto il quale è consigliabile iniziare una supplementazione», precisa il dottor Cesareo.

«Purtroppo, però, molte persone acquistano di tasca propria questi integratori, al punto che la vitamina D è diventata il terzo farmaco più venduto in Italia, facendo registrare un giro di affari annuo pari almeno a 240 milioni di euro. Questo è dovuto alla confusione che regna in materia, perché si considerano “malati” anche soggetti che in realtà non lo sono. Basti pensare che già nel 2018, su The Conversation, il professore di Epidemiologia genetica del King’s College di Londra, Tim Spector, aveva parlato di pseudo malattia, un falso bisogno sanitario di vitamina D creato da un intreccio di interessi economici ed eccessive preoccupazioni da parte di medici e pazienti».


Qualche eccezione

La Nota 96 specifica inoltre che i soggetti con osteoporosi giovano di un’integrazione di vitamina D anche quando quest’ultima risulta normale, ovvero superiore ai 20 ng/mL: «È dimostrato infatti che i farmaci impiegati nel trattamento dell’osteoporosi funzionano meglio se vengono associati a una supplementazione di vitamina D, indipendentemente dai suoi livelli», conclude Cesareo. «Ma si tratta di un’eccezione. In tutti gli altri casi, assumere senza un reale bisogno questa vitamina, che nella pratica poi è un ormone, risulta del tutto inutile».


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