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Disturbi della prostata, tutte le novità per curarli

Dai farmaci che combinano due molecole alle nuove tecniche diagnostiche. Scopri come risolvere questi disturbi

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Sono milioni in Italia gli uomini alle prese con i disturbi alla prostata, una ghiandola dell’apparato genitale situata appena sotto la vescica, davanti al retto. Secondo uno studio condotto nel 2016 dalla Società italiana di urologia (Siu), le iperplasie prostatiche benigne, le prostatiti e i tumori riguardano il 53% della popolazione maschile tra i 30 e i 75 anni.

Fortunatamente, negli ultimi tempi si sono profilate importanti novità sia in campo diagnostico sia terapeutico.  Ce le illustra il professor Vincenzo Mirone, ordinario di urologia all’Università Federico II di Napoli e segretario generale della Siu.


Farmaci più efficaci contro l'iperplasia

L’iperplasia prostatica benigna, cioè l’ingrossamento della ghiandola, è un problema banale che però comporta disturbi fastidiosi: dal bisogno di alzarsi di notte per fare la pipì alla frequente necessità di andare in bagno anche di giorno, spesso con notevole difficoltà a posticipare lo stimolo e con una sensazione di mancato svuotamento della vescica.

«Oggi la terapia di prima linea prevede l’associazione di due principi attivi: un farmaco alfa-litico che, rilassando la muscolatura liscia della prostata e del collo della vescica consente all’urina di fluire più liberamente, e un inibitore della 5-alfa redattasi, l’enzima indirettamente responsabile del problema (attiva infatti l’ormone maschile che fa aumentare di volume la ghiandola)», spiega il professor Mirone.

«L’aver unito due molecole (l’alfa-litico tamsulosina e l’inibitore enzimatico dutasteride) in un solo farmaco dovrebbe far aumentare l’aderenza dei pazienti alla terapia che è il tallone d’Achille di questo tipo di cure.

Dati alla mano, sappiamo infatti che a un anno di distanza dall’inizio della cura solo il 29% degli uomini rispetta la prescrizione medica, proprio per l’avversione a prendere più pillole al giorno».

Praticità d’uso a parte, gli studi condotti dimostrano che la nuova associazione farmacologica migliora significativamente i sintomi urinari, quali l’impellente necessità a “svuotarsi”, e dimezza il rischio di progressione della malattia.

In pratica, blocca l’ipertrofia allo stadio in cui viene curata, specie se parallelamente ai sintomi si cerca di curare l’infiammazione cronica della prostata (la famigerata prostatite che molto spesso sta a monte di tutto il quadro clinico.

Spiega ancora il professor Mirone: «Nella ghiandola ci sono linfociti, cellule del sistema immunitario che in presenza di un danno (come nel caso di infezioni urinarie recidivanti) scatenano una reazione infiammatoria di difesa.

Questa da acuta si trasforma rapidamente in cronica, perché determina il richiamo e l’infiltrazione nella ghiandola di ulteriori linfociti, la liberazione di molecole pro-infiammatorie e, di conseguenza, l’anomala proliferazione di cellule che causano l’ingrossamento della prostata».

Per questa ragione, ai pazienti con iperplasia prostatica severa che mostrano i segni di un’infiammazione cronica, quali sintomi urinari pesanti e presenza di calcificazioni rilevabili con una semplice ecografia, occorre prescrivere, in associazione al farmaco “due in uno”, antinfiammatori specifici, anche  come integratori di libera vendita in farmacia.

I più efficaci? Quelli a base di serenoa repens, la pianta sempreverde (nota anche come palma nana della Califormia) amica degli uomini, perché favorisce la funzionalità della prostata e delle vie urinarie.


Diagnosi più precise per i tumori 

Spina nel fianco del sesso forte, il tumore alla prostata annovera ogni anno, in Italia, circa 34 mila nuovi casi ma la mortalità è in calo, grazie alle numerose terapie e alla diffusione delle tecniche di diagnosi precoce.

Proprio sul fronte della diagnostica, si sono fatti passi da gigante in termini di qualità e precisione. «Tradizionalmente le biopsie della prostata vengono fatte inserendo l’ago per il prelievo sotto guida ecografica. L’immagine, però, non distingue quasi mai tra tessuto sano e tumorale, fatto che porta a dover fare più prelievi casuali in tutta la ghiandola.

Può, comunque, succedere di non riuscire a prelevare un eventuale frammento di tessuto tumorale. Aumentano così i falsi negativi e la necessità di ripetere l’esame se il sospetto clinico, agli occhi dell’urologo, permane» spiega il professor Miron.

«Nei centri di urologia più all’avanguardia, però, oggi possiamo contare sulla nuova biopsia “fusion” che integra le immagini ottenute con la risonanza magnetica multiparametrica (l’unica in grado di evidenziare le zone sospette), con quelle fornite da un ecografo tridimensionale.

Così, possiamo “puntare” con maggiore precisione sulle aree della prostata in cui è probabile la presenza di una lesione tumorale». Si tratta di un’innovazione importante, che riduce il numero dei prelievi bioptici, i falsi negativi e le complicanze da biopsia, come il sangue nelle urine, nel liquido seminale e nel retto, nonché il rischio di infezioni urinarie e di prostatiti acute.


Alcune forme tumorali non si operano più

Grazie alla diagnosi precoce, oggi sono individuati tumori alla prostata che in passato erano ignorati: quelli definiti indolenti perché hanno una crescita molto lenta.

Occorre intervenire subito anche su questi? «No, un paziente su tre con diagnosi di tumore alla prostata non aggressivo può evitare o ritardare nel tempo il ricorso alla chirurgia e alla radioterapia grazie alla “sorveglianza attiva”, ossia un rigido protocollo di controlli nel tempo», risponde Vincenzo Mirone.

«Lo confermano i risultati di un importante studio in corso da oltre 11 anni all’Istituto nazionale dei tumori di Milano su 818 pazienti con tumore indolente. 

Tutti sono sottoposti ogni anno a due controlli con palpazione della ghiandola prostatica e a quattro analisi del Psa ( il “marcatore” del sangue specifico per la prostata), oltre che a periodiche biopsie variabili da caso a caso. Così, se il tumore cambia caratteristiche, si può intervenire per tempo e passare subito alla terapia chirurgica».

Secondo dati appena pubblicati, il 50% dei pazienti con tumore indolente è ancora nel programma di sorveglianza attiva dopo 5 anni dal suo inizio. Fatto che fa ben sperare  sulla possibilità di evitare la via del bisturi.


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