Storia vera: «Il Coronavirus non è riuscito ad attaccare i miei polmoni»

Il racconto di Patrizia, cantante. Per professione ha sempre allenato le sue capacità respiratorie, che l’hanno resa più forte nella lotta contro il Covid-19



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All’altro capo del telefono, la voce è bella. Squillante e limpida, senza il timbro di una sofferenza appena trascorsa. È quella della cantante milanese Patrizia Zanetti, un passato tra eventi in tutto il mondo, e un presente che si chiama Coronavirus. Patrizia ci racconta a Starbene la sua storia, rientra tra gli italiani che sono stati male per colpa dell’infezione. Ma ce l'ha fatta, i suoi polmoni, hanno superato il peggio. Un’odissea, tra sintomi insoliti, letti d’ospedale e tamponi ancora in corso.


Patrizia, da dove è partito il contagio?

Probabilmente è successo durante la settimana della moda a Milano, a metà febbraio. Per lavoro, correvo da un evento all’altro, da un luogo all’altro, affollati da una miriade di persone provenienti da tutto il mondo Canto: non è certo difficile fare partire un’infezione appoggiando la bocca a un microfono. Chissà! Di fatto, il 23 febbraio ho finito le mie serate e sono partita per Torino. A casa del mio fidanzato, Edoardo, ho iniziato ad avere febbre, sui 38 gradi. E tosse, secca e insistente.


Sembrava una banale influenza...

Spesso ho cantato anche con la febbre alta, senza accusare il colpo. Questa volta no, è stato un crescendo di sintomi strani e sempre più pesanti. La temperatura non era altissima, ma io non stavo in piedi: avevo una forte nausea, non riuscivo più a mangiare, dormivo tutto il giorno e la tosse non mi dava tregua. Mi sentivo uno “straccio”, in poche parole.


Hai pensato subito al Coronavirus?

Quasi immediatamente. Ho chiamato subito i numeri d’emergenza. Le risposte, però, erano generiche: «Se respira ancora bene, non è Coronavirus»; «Se il termometro registra solo 38 gradi, si tratta di un’influenza», mi dicevano. Poi, il 2 marzo con 40 gradi di febbre, dolori violenti in tutto il corpo, la sensazione di non riuscire più a muovermi. Ho chiamato l’ambulanza. A quel punto, gli operatori mi hanno portata all’ospedale Amedeo di Savoia, sempre a Torino. Sono passati nove giorni prima del ricovero, il fatto di non avere difficoltà a respirare mi escludeva dalle cure.


E quando è arrivata la diagnosi?

Sono risultata positiva a ben quattro tamponi di seguito (due nel naso e uno nella gola all’arrivo, un altro il giorno dopo). Non ho avuto una particolare paura, mi sentivo forte e fiduciosa nelle cure. Sbagliavo. I medici hanno deciso una terapia d’attacco: copinavir, ritirovair e clorochina, farmaci usati per curare l’Ebola e l’Aids. Ma invece di guarire sono stata male, malissimo perché i medicinali hanno provocato un’allergia. Vomitavo e svenivo continuamente. Senza toccare cibo, senza dormire per una settimana. In quei momenti, ho pensato di non farcela, di morire in una stanza d’ospedale, lontana dai miei cari. Finché dopo otto giorni i dottori hanno deciso di sospendere la cura, non potevo andare avanti così. Effetti positivi sulla malattia, poi, non c’erano: il Coronavirus era ancora dentro me, con tutte le sue manifestazioni.


Allora, come ti sei curata?

Nella disgrazia, la mia fortuna è stata che non ho avuto problemi respiratori. Anche perché ho polmoni robusti, li alleno con esercizi di respirazione; per il resto, non bevo, non fumo e mangio sano. Dopo la sospensione delle terapie, ho continuato a prendere la tachipirina, mi facevano due flebo al giorno di antibiotici contro l’epatite A – che ho scoperto di avere in ospedale – e mi alimentavano per endovena. Ero talmente intossicata, che non c’era altro da fare. Ma, giorno dopo giorno, il mio organismo ha iniziato a reagire positivamente e a ristabilirsi.


Quando sei stata dimessa?

«Il 14 marzo, per mia decisione. Mi avevamo messo in stanza con una paziente. Era in condizioni critiche e io non volevo che la malattia ripartisse daccapo. Per quanto, non posso dirmi guarita: dopo più di tre settimane dal primo controllo, sono ancora positiva. Nonostante ciò, il mio compagno mi ha accolto a casa sua, dove tutt’ora vivo.


Ora il peggio sembra passato, però.

Sto nettamente meglio, certo, ma con qualche preoccupazione in testa: a Edoardo, non hanno mai fatto il tampone. Non ha sintomi, ma non sappiamo se è contagioso. Per gli altri che sono venuti in contatto con lui, ma anche per me. Perché ancora non si sa con precisione quando e come ci si immunizza dalla malattia.


La tua quarantena cosa prevede?

Sono reclusa in una stanza, lui è nell’altra.  Ci facciamo compagnia a distanza. Metto mascherina e guanti ogni volta che vado in bagno, in cucina o in salotto. Mangiamo insieme, ma in tavolo lungo due metri! Ovviamente, disinfetto tutto quello che tocco.


Cosa ti ha aiutato a venire fuori da questa brutta situazione?

L’affetto, la disponibilità, la generosità del fidanzato e degli amici hanno fatto miracoli. Mentre ero ricoverata, hanno sempre pensato a me e sono stati presenti in tutto e per tutto con mia madre, che è anziana e sola. Nella fase peggiore, ogni volta che aprivo Whatsapp vedevo tantissimi messaggi di auguri. Questo mi ha commosso (e incoraggiato) profondamente. Sapevo di essere amata, ma non così. Io non chiesto niente, tutto mi è arrivato spontaneamente. In quantità extralarge.


Qual è l’eredità del Coronavirus?

Una voce agile e riposata, con toni più alti e distesi. Il potere del buonumore, antidoto alle difficoltà: sono riuscita a fare ridere la mia compagna di stanza, che aveva il respiratore. Una lezione di vita: diamo amore per il piacere di farlo, senza aspettarci niente in cambio. È il miglior regalo che possiamo fare agli altri.


I DUBBI DI PATRIZIA SONO QUELLI DI TANTI

La paura di ricontagiarsi è comune. «E, finora, non corroborata dai fatti», spiega Fabrizio Pregliasco, virologo. «Esiste solo un caso al mondo di sospetta recidiva, ma sembra si tratti di una persona che, positiva, era dapprima risultata negativa al tampone. Su quanto duri l’immunità, l’ipotesi è che sia pari a quella di virus come la Sars: una volta guariti, 4 anni». A proposito di test: «Oggi il tampone si fa alle persone che hanno soprattutto sintomi respiratori, ma Regioni come il Veneto vogliono farlo a tutti per via dei tanti asintomatici», dice Franco Marchetti, medico di base.



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Articolo pubblicato sul n. 16 di Starbene, in edicola e nella app dal 31 marzo 2020



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