Come migliorare il senso di orientamento: la migliore bussola è il cervello

Il senso d’orientamento non è uguale per tutti, ma ciascuno di noi può migliorare e sviluppare la capacità di imboccare la direzione giusta. Un saggio d’Oltremanica propone un viaggio affascinante alla scoperta del nostro “navigatore interno”



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Come te la cavi con il senso di orientamento? Nessuno contesta che i navigatori satellitari siano una geniale e comodissima invenzione degli ultimi decenni, eppure c’è chi avverte che, in nome del totem tecnologico, non possiamo appiattire del tutto la nostra wayfinding, quell’innata capacità d’orientarsi nello spazio fisico, fattore cruciale dell’evoluzione umana. La prova è nel saggio scientifico Il cervello trova la strada (Corbaccio) di Michael Bond, approdato anche nelle librerie italiane per spiegarci come riusciamo a orientarci anche in luoghi sconosciuti, perché alcuni ci riescono alla prima battuta mentre molti altri si perdono, e come la nostra visione del mondo esterno influenza la mente e i comportamenti. Sul sottofondo di ogni pagina, comunque, campeggia lo stesso invito: disattiviamo, ogni tanto, l’opzione maps sullo smartphone.

Ecco la nostra intervista a Michael Bond, giornalista inglese che è stato reporter al New Scientist, settimanale di divulgazione scientifica, specializzato in psicologia e comportamento umano. Ha scritto anche il saggio The Power of Others, con cui ha vinto nel 2015 il “British Psychology Society Prize”.


Cosa succede al cervello quando siamo in un luogo sconosciuto?

Se spegniamo il navigatore e ci guardiamo intorno, mentre proviamo a capire la geografia e le direzioni, s’attivano le cellule nervose (“cellule di posizione”) che si trovano in una parte del cervello, l’ippocampo. E, allora, questi neuroni iniziano a costruire un sistema di riferimento spaziale o “mappa cognitiva”.


Ci spieghi il funzionamento delle “mappe cognitive”?

Sono rappresentazioni neurali, tante cellule che lavorano insieme per informarci su dove siamo e ricordarci dove siamo stati, quindi ci permettono di muoverci nel mondo fisico. Di questi neuroni legati allo spazio, ce ne sono diversi: dalle “cellule testadirezione” (ci comunicano la direzione in cui siamo rivolti) a quelle “a griglia” (ci segnalano la posizione in cui siamo all’interno di uno spazio) fino alle “cellule confine” (ci indicano la distanza e la direzione rispetto a un qualsiasi limite). Non si tratta, perciò, di una mappa nel senso tradizionale del termine: se aprissimo il nostro ippocampo, non troveremmo l’equivalente di Google Maps per tutti i luoghi in cui siamo stati o che abbiamo memorizzato!


Come ricordiamo il tragitto tra un punto A e un punto B?

Ancora non sappiamo come il cervello gestisca gli spostamenti: è certo però he le place cells reagiscono a certe caratteristiche ambientali, stabilendo un nesso con punti di riferimento, oggetti, colori, odori e proprietà geometriche del contesto.


Quali elementi determinano il senso dell’orientamento?

I confini spaziali, come i lati delle strade, una parete, un margine, un cambiamento di colore o di texture, potrebbero essere il collante che tiene insieme la mappa cognitiva in quanto ci danno un senso dello spazio. Poi, ci sono i punti di riferimento spaziale, che cambiano a seconda di come è girata la nostra testa. Una volta catturati, comunque, la mente tende a fissarsi con ostinazione verso l’orientamento prescelto. Ecco perché è più probabile perdersi in luoghi con pochi punti di riferimento evidenti, come grandi edifici o con poca visuale.


Dici che la capacità di orientamento è importante anche per avere una vita migliore, in generale...

L’orientamento ha molto a che fare con il prestare attenzione a ciò che ci circonda. Se guardiamo bene dove ci troviamo, notiamo di più e ci ricordiamo di più del nostro viaggio. Tutto questo arricchisce l’intera esperienza. Un buon senso dell’orientamento, inoltre, serve per mantenere sane anche altre abilità cognitive.


Quali altri sviluppi positivi comporta, quindi?

Lo spazio e la memoria sembrano intrecciati: l’ippocampo utilizza i ricordi di luoghi come una specie di impalcatura su cui riaggregare altre informazioni. Molti dei nostri flashback sono legati ai posti: difficile ripensare a una festa, al primo appuntamento, a un pranzo con gli amici senza ricordare dove è avvenuto. Stessa cosa, è più semplice rammentarsi qualcosa in associazione a un certo ambiente. Ancora: per gli studiosi, il sistema spaziale del cervello ci aiuta a pensare il futuro, in quanto ci consente di fare viaggi immaginari, di pensare a scenari alternativi al presente. Sempre le place cells sono coinvolte nello svolgimento di compiti mentali astratti che nulla hanno a che fare con l’orientamento o la navigazione. È grazie a questi neuroni, quindi, che possiamo viaggiare tanto con la mente quanto nel mondo reale.


Si nasce o si diventa dei buoni navigatori?

Ci sono grandi differenze individuali ma, come ogni altra abilità, è sempre possibile migliorare. L’arte della navigazione va vista come un’opportunità, che tutti possiamo cogliere. In questo, l’educazione ha una grande influenza. I bambini che sono autorizzati a muoversi con una certa libertà, a esplorare e a trovare la propria strada da soli tendono a essere dei navigatori migliori da adulti. Non solo per tecnica e allenamento, ma per la consapevolezza di essere in grado di poterlo fare. Fiduciosi in se stessi, hanno l’autostima giusta per intraprendere nuove strade e partire da soli.


Il senso dell’orientamento dipende anche dalla personalità?

In un test su 12mila soggetti, è venuto fuori che le persone estroverse (dotate di energia ed entusiasmo), coscienziose (disciplinate e attente ai dettagli) e aperte a nuove esperienze (curiosità e ingegnosità) hanno quelle qualità utili a orientarsi in posti nuovi, dal momento che li costringono a entrare in relazione con l’ambiente circostante. Questo non vuole dire che chi è introverso, chiuso e sbadato, perciò più facile a perdersi, non possa diventare un buon navigatore. Innanzitutto, il carattere cambia nel tempo; poi, il senso d’orientamento non dipende solo dalla personalità, ma da altre variabili come le persone con cui viviamo, lo stato emotivo del momento, il contesto in cui ci troviamo.


Tra gli uomini e le donne, chi sono più bravi a navigare a vista?

Fino agli 8-9 anni non ci sono differenze significative. Da adulti, i maschi in media sono un po’ più bravi delle femmine a esplorare. Non è un gap biologico, comunque, ma solo culturale. Le ragazze, spesso, hanno meno opportunità di giocare liberamente nel loro ambiente, sono poco incoraggiate a seguire studi scientifici come matematica o ingegneria che insegnerebbero loro tante abilità spaziali. La cosa interessante è che in Paesi come la Finlandia e la Svezia, che offrono pari opportunità tra i sessi, non ci sono reali differenze nelle abilità di navigazione.


Dopo questo lockdown epocale, come possiamo ritrovare il senso d’orientamento?

Il modo migliore è uscire e metterlo alla prova. È il momento di trovare la nostra strada nel mondo.



La calma è la migliore guida

«L’ansia di perdersi ci fa perdere davvero», dice Michael Bond. «Rende meno efficiente l’ippocampo e ci impedisce di provare nuovi percorsi, il che non migliora il nostro wayfinding. Questo è un processo cognitivo complesso che richiede tre facoltà. Concentrazione: facciamo attenzione a ciò che sta succedendo intorno (colori, odori, suoni) in modo da connetterci allo spazio circostante, stabilire un legame con la realtà e non farci distrarre da pensieri lontanissimi dal presente. Memoria: annotiamo i punti di riferimento e le caratteristiche distintive del luogo. Fiducia in noi stessi: non abbiamo paura di inoltrarci per un po’ in una certa direzione, poi torniamo al punto di partenza, proviamo un’altra via e di nuovo indietro. E diamoci tutto il tempo di sperimentare».



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Articolo pubblicato sul n° 7 di Starbene in edicola e digitale dal 15 giugno 2021


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