PARTO

Nella specie umana la gravidanza dura in media 38 settimane dalla data del concepimento. Poiché questo avviene subito dopo l’ovulazione, che cade di norma intorno al 14° giorno del ciclo, il calcolo del parto viene eseguito di solito contando 40 settimane a partire dal primo giorno dell’ultima mestruazione. Questa data è ovviamente presunta, poiché esiste […]



Nella specie umana la gravidanza dura in media 38 settimane dalla data del concepimento. Poiché questo avviene subito dopo l’ovulazione, che cade di norma intorno al 14° giorno del ciclo, il calcolo del parto viene eseguito di solito contando 40 settimane a partire dal primo giorno dell’ultima mestruazione. Questa data è ovviamente presunta, poiché esiste un’estrema variabilità individuale negli eventi materni e fetali che scatenano il travaglio e il parto. Sebbene ogni travaglio e parto fisiologico siano diversi da donna a donna, la maggior parte di essi segue uno schema generale. Ogni donna può avere un’idea generale delle modificazioni che si verificheranno nel proprio corpo al momento del parto e del travaglio, dove con quest’ultimo termine si intende una serie ritmica e progressiva di contrazioni uterine che gradualmente spostano il feto attraverso la parte bassa dell’utero e il canale del parto verso l’esterno. Il travaglio inizia generalmente entro 2 settimane (prima o dopo) la data di scadenza della gravidanza. Non si conosce esattamente quale sia il fattore che scatena il travaglio. Verso la fine della gravidanza (dopo le 36 settimane di gestazione) è opportuno eseguire una visita ostetrica per cercare di capire a che punto ci si trova.

Le cause che scatenano l’attività contrattile dell’utero dopo nove mesi di silenzio sono ancora in parte sconosciute; durante la gravidanza, le contrazioni uterine sono inibite dagli elevati livelli di progesterone in circolo, che rendono l’utero insensibile alle stimolazioni che inducono le contrazioni. Pertanto, l’insorgenza del travaglio è dovuta a fattori che sono in grado di superare l’azione inibitoria del progesterone. Anche se si ignora quale sia il primum movens che attiva il meccanismo di insorgenza del travaglio, si sa comunque che la sua insorgenza è stimolata da molteplici fattori in grado di attivare la contrattilità uterina. Tra i fattori scatenanti sono compresi fattori esterni, nervosi, meccanici, fetali, ormonali e locali. È risaputo che gli stress fisici e psichici, i traumi, gli incidenti e altri eventi simili sono in grado di indurre e stimolare il travaglio. Si tratta però, ovviamente, di situazioni particolari che nella specie umana e in condizioni fisiologiche non hanno rilievo clinico. La distensione dell’utero dovuta alla crescita del feto provoca uno stiramento muscolare delle pareti, con aumento della capacità contrattile del muscolo; al termine della gravidanza, lo stiramento muscolare dell’utero è tale da determinare il blocco della contrattilità da parte del progesterone. Questa ipotesi trova infatti conferma nella maggiore precocità di insorgenza del travaglio quando ci si trova di fronte a un utero eccessivamente disteso (gravidanza gemellare, fibroma uterino e poliamnios). Alcune settimane prima del termine della gravidanza, il surrene del bambino (ghiandola posta al di sopra dei reni con funzione di produzione degli ormoni) incrementa la secrezione di determinati ormoni (DEA e cortisolo, il “cortisone naturale”), che sono in grado di stimolare la produzione di una sostanza che matura i polmoni (surfactante) e in parte disattiva il blocco del progesterone sulla contrattilità dell’utero. Tale processo sembrerebbe portare, così, alla comparsa delle contrazioni, poiché i polmoni fetali sono giunti al termine della maturazione. Molti ormoni sono in grado di modificare e inattivare il blocco del progesterone sulla muscolatura uterina (blocco prostenico). Il già citato cortisolo fetale ne è un esempio, perché oltre a determinare e ultimare la maturazione polmonare del feto, promuove il termine della gravidanza con disattivazione dell’attività progestinica sull’utero. Anche gli estrogeni prodotti dalla placenta agiscono in maniera simile; infatti determinano un aumento del numero dei recettori per l’ossitocina (ormone che determina la comparsa durante il travaglio delle contrazioni uterine e il riflesso di lattazione dopo la prima poppata), cosicché l’utero si avvia al travaglio vero e proprio. L’ossitocina, prodotta dall’ipofisi materna e dal feto, regolarizza e mantiene attiva la contrattilità uterina durante il parto. Da anni, ormai, gli ostetrici hanno scoperto che la stimolazione locale è in grado di eccitare le contrazioni uterine. Tale effetto si può ottenere mediante l’applicazione di varie sostanze a livello del collo uterino (per esempio purganti e clisteri, candelette vaginali) oppure con lo scollamento posteriore delle membrane. Questi stimoli agiscono principalmente determinando il rilascio di una sostanza placentare, nota come prostaglandina, che induce una maturazione della cervice uterina (collo dell’utero) e un’attivazione della contrattilità uterina; infatti, quando si vuole indurre il parto è possibile somministrare per via endovenosa questa sostanza, che determina quindi la comparsa delle contrazioni e l’avvio del travaglio. Una volta avviato, questo è in grado di regolarsi autonomamente e di mantenersi, procedendo attraverso alcune tappe prestabilite e fisse fino alla completa espulsione del feto. Le fasi del travaglio in realtà non sono chiaramente distinguibili l’una dall’altra, ma tendono a fondersi. Ai fini della comprensione, però, si possono individuare tre momenti principali: primo stadio o periodo cervicale, secondo stadio o periodo dilatante, terzo stadio o periodo espulsivo. Durante la prima fase, le contrazioni uterine determinano una graduale apertura della cervice uterina (dilatazione), con assottigliamento e spinta fino a far emergere il feto dall’utero. Questi cambiamenti consentono al feto di attraversare la vagina. Il secondo e terzo stadio consentono l’espulsione del feto e della placenta.

Primo stadio Il periodo cervicale inizia con l’insorgenza del travaglio e termina con la completa maturazione del collo uterino. La durata di questa fase è variabile, solitamente al primo parto tende a essere più lenta e duratura, pertanto il collo impiega circa 24 ore a modificarsi e prepararsi al passaggio del feto; nelle donne che hanno già partorito invece il processo è più rapido e dura in media meno di 12 ore. A questo punto di solito la dilatazione è già cominciata e si arriva a 3-4 cm di diametro. Questa dilatazione è fondamentalmente causata dalla comparsa di contrazioni ritmiche e costanti che spingono lentamente il feto verso il basso, determinando un peso sul collo dell’utero (cervice uterina). L’esordio del travaglio coincide con la comparsa di contrazioni prima irregolari per intensità e durata, poco dolorose (contrazioni preparanti) e simili ai dolori mestruali, quindi regolari ed efficaci, in grado di modificare la cervice uterina, ma anche più dolorose e intense, più ravvicinate. Nei casi dubbi è possibile ricorrere alla vita ostetrica per valutare la dilatazione del collo uterino. La discesa della testa del feto associata alle contrazioni porta a un fenomeno fondamentale del travaglio: la maturazione del collo cervicale (cervice uterina). Questo fenomeno, conseguente alle contrazioni e alla discesa della testa del feto, che si prepara al parto vero e proprio, comporta profonde modificazioni del tessuto, che diviene soffice e più corto (appianato) e centralizzato. Questa complessa serie di modificazioni servirà a creare il canale del parto tramite cui il feto passerà, per uscire in vagina. Contemporaneamente alle modificazioni del collo uterino, il polo inferiore delle membrane oculari si posiziona anteriormente alla testa del feto, per sporgere attraverso l’orifizio della cervice dilatata. Questa borsa andrà poi incontro a rottura con perdita di liquido chiaro in vagina. Altri segni possono accompagnare o precedere il travaglio: si può avere l’emissione di una piccola quantità di sangue mista a muco dalla vagina o la rottura prematura delle membrane amniotiche (la cosiddetta rottura delle acque), con perdita di liquido amniotico dalla vagina. Quando si verifica la rottura delle acque, la donna deve recarsi immediatamente in ospedale perché il travaglio comincerà entro le successive 24 ore. Se non si ha inizio del travaglio dopo la rottura, è possibile indurre artificialmente il parto tramite l’ossitocina o le prostaglandine; questo viene solitamente fatto perché il rischio di infezione dopo rottura delle membrane è più elevato.

Secondo stadio Il periodo dilatante corrisponde alla fase attiva del travaglio: segue alla dilatazione del canale cervicale e si sovrappone in parte a esso. Le contrazioni divengono più frequenti e ravvicinate nel tempo, i dolori divengono più intensi e si estendono anche alla regione lombare. L’intera energia di contrazione dell’utero si scarica sul collo dell’utero, facendolo ulteriormente dilatare. La velocità di dilatazione del canale dipende dal grado di morbidezza del collo stesso; più il collo è soffice e piano, più rapida sarà la dilatazione. In condizioni normali il collo si dilata a una velocità di circa 1 cm all’ora nella prima gravidanza, mentre nelle gravidanze successive può essere più veloce (2 cm circa all’ora). A questo stadio, durante la visita, non si apprezza più alcuna differenza tra collo e vagina perché si è formato un unico canale, detto canale del parto. Quando la dilatazione è completa (intorno ai 10 cm) si ha la rottura delle membrane, se questa non è avvenuta in precedenza. Se la testa è già posizionata, la fuoriuscita di liquido è minima, in caso contrario, se la testa è ancora alta, la perdita può essere più abbondante.La presentazione e la posizione del feto influiscono sul passaggio del feto attraverso la vagina.

Terzo stadio Questa fase inizia quando la dilatazione è completa e le membrane si sono già rotte e termina con l’espulsione del feto. La durata varia da 1-2 ore nella prima gravidanza, mentre può essere più rapida nelle gravidanze successive (30-60 minuti). Le contrazioni sono molto intense e prolungate, accompagnate spesso dalla necessità di “spingere” con l’addome (spinta addominale). La somma delle due forze di contrazione muove con energia il feto attraverso il canale del parto, compiendo tutta una serie di adattamenti per lasciar passare le varie parti del corpo. Una volta impegnata la testa del feto, questa procede, grazie alle spinte conseguenti alle contrazioni, verso il basso, ed è possibile vedere a occhio nudo la testa che scende lungo il canale del parto. Con la progressione della testa, i tessuti circostanti vengono stirati e allargati, in modo da favorire la discesa del resto del corpo. Seguendo le spinte, si ha dapprima la fuoriuscita del capo del bambino, poi, una volta disimpegnata la testa, quella delle spalle (prima una e poi l’altra) e della rimanente parte del corpo (ovviamente nel caso in cui la parte presentante sia la testa). Attualmente le presentazioni diverse da quelle cefaliche vengono trattate con taglio cesareo, poiché i rischi fetali connessi al parto sono maggiori (per esempio frattura della clavicola nelle distocie di spalla). Una volta fuoriuscito il bambino, e reciso il cordone ombelicale, l’utero si contrae e si accorcia, per effetto delle fibre muscolari. La placenta, adesa ancora all’utero, finisce per staccarsi e ricadere nel canale del parto, e viene espulsa progressivamente insieme al cordone ombelicale, eventualmente con l’aiuto di un massaggio dell’utero sulla parete addominale. La fase dell’espulsione della placenta è detta secondamento e può durare dai 6 ai 15 minuti. Una volta distaccatasi completamente la placenta, l’utero si contrae tenacemente, per evitare che i vasi sanguigni aperti da cui si è staccata la placenta possano dare un’emorragia; a questo stadio, ponendo una mano sulla pancia è possibile apprezzare l’utero contratto come una pietra. Per aiutare questa fase solitamente vengono somministrati per via endovena farmaci che stimolano la contrazione uterina.


Terapia del dolore

In base all’indicazione del medico ginecologo o dell’anestesista, la gestante può programmare una terapia del dolore molto prima del travaglio. Si può optare per un parto naturale, basato su tecniche di rilassamento e di respirazione, adatte ad affrontare i dolori del parto, oppure per una terapia analgesica locale o sistemica, a seconda dell’entità del dolore. Solitamente si somministrano analgesici durante il travaglio, in base al livello di dolore e di ansia della partoriente. Tuttavia, poiché alcuni farmaci possono deprimere o rallentare il respiro o altre funzioni fetali, viene somministrata la minima dose possibile di analgesico. I farmaci più utilizzati sono meperidina o morfina per via endovenosa (solamente nella fase attiva del parto, in quanto possono rallentare la progressione del travaglio). Sono possibili anche forme di anestesia locale per ridurre il dolore della vagina e dei tessuti circostanti. In genere, l’anestetico viene iniettato localmente nella parete vaginale e nelle zone che circondano la zona del parto. Questa tecnica, detta blocco del nervo pudendo, viene impiegata nel travaglio avanzato, quando la testa del feto sporge dalla vagina. Quando invece occorre una terapia antidolorifica più completa, è possibile utilizzare l’iniezione epidurale lombare. La tecnica prevede l’iniezione di anestetico in sede lombare, nello spazio compreso tra il rachide e il tessuto esterno di rivestimento del midollo spinale (epidurale). Può essere posizionato anche un catetere epidurale, che permette una somministrazione ripetuta e più lenta del farmaco. Un’altra tecnica, riservata alle anestesie per parto cesareo, prevede invece l’iniezione di anestetico tra gli strati interni e centrali che rivestono il midollo (anestesia spinale), in uno spazio virtuale detto spazio subaracnoideo. È bene sottolineare che entrambe le tecniche possono determinare un abbassamento della pressione arteriosa, pertanto è opportuno monitorare la pressione sanguigna. In entrambi i casi la donna è sveglia e lucida, ma la differenza consiste nel livello di anestesia; nel primo caso si ha semplicemente un’anestesia dolorifica, nel secondo, invece, la metà inferiore del corpo è addormentata. Nel caso di tagli cesarei urgenti, infine, si ricorre a un’anestesia generale, in cui la donna è incosciente per un periodo di tempo limitato.


Monitoraggio fetale

Durante la gravidanza e il travaglio, il feto viene monitorato tramite un’apparecchiatura detta cardiotocografo. Questo strumento viene posizionato sulla pancia della madre, con due sensori che registrano il battito fetale e le contrazioni uterine. Il tracciato che deriva dalla registrazione per 20 minuti consecutivi dei due parametri può essere di valido aiuto per la diagnosi di travaglio imminente o in atto. L’apparecchio è in grado inoltre di registrare le modificazioni del battito cardiaco fetale: infatti, quando si verifica una riduzione della frequenza cardiaca del feto durante le contrazioni uterine, si può prevedere una ridotta ossigenazione del feto. Il monitoraggio cardiotocografico viene eseguito anche in caso di induzione del parto con ossitocina (ormone che causa le contrazioni uterine). Il tracciato permette di comprendere se il feto riesce a tollerare il travaglio (ovvero se vi sia una adeguata ossigenazione durante le contrazioni). Qualora nel tracciato compaiano delle anomalie del battito fetale (per esempio decelerazioni), solitamente si preferisce terminare il parto con un taglio cesareo, per evitare eventuali danni al feto se questo non viene adeguatamente ossigenato.


Patologie del parto

Normalmente il travaglio insorge al termine della gravidanza, mediamente tra la 38a e la 40a settimana di gestazione; se questo insorge prima della 38a settimana o dopo la 42a è considerato patologico e nel primo caso si parla di parto prematuro, nel secondo di gravidanza protratta. A causa del rischio di scarsa ossigenazione del feto per effetto dell’invecchiamento della placenta, solitamente non si attende lo scadere della 42a settimana di gestazione; in questi casi si induce farmacologicamente il parto, con applicazione di prostaglandine per via vaginale, associata a rottura delle membrane, seguita eventualmente da ossitocina endovena. Un’indicazione all’induzione del parto è la rottura prematura delle membrane; questa si manifesta con perdita di liquido chiaro (amniotico) dalla vagina, associata talvolta alla comparsa di contrazioni irregolari. Generalmente il travaglio prosegue autonomamente nell’arco di 12-24 ore, ma se ciò non avviene è opportuno intervenire con farmaci per stimolarlo. La rottura prematura infatti è associata a un maggior rischio di risalita verso l’utero di batteri vaginali, che possono compromettere il buon esito del parto. Se la rottura avviene troppo precocemente (prima che siano trascorse 36 settimane di gestazione), la donna viene ricoverata per aspettare la completa maturazione polmonare del feto. Può capitare, invece, che durante la fase cervicale del travaglio le contrazioni non diventino più intense e regolari, ostacolando in questo modo la maturazione del collo cervicale; in tal caso si parla di discinesia spastica del collo uterino: il collo dell’utero è eccessivamente rigido e impedisce la corretta discesa della testa del feto. Altre volte, invece, l’utero non si contrae con sufficiente vigore e quindi non riesce a spingere la testa verso il basso, con scarso impegno da parte del feto. In tutte le situazioni appena esposte si procede all’induzione del travaglio per via farmacologica, e se ciò non è sufficiente si ricorre al taglio cesareo. Molto importante è l’ipossia fetale, ossia la scarsa ossigenazione del feto. Questa patologia può insorgere in qualsiasi momento del travaglio, ma con maggior frequenza all’inizio e alla fine del parto. Va distinta dalle normali decelerazioni (rallentamenti) del battito cardiaco fetale che compaiono durante le contrazioni per effetto della “spremitura” dell’utero sul feto. In caso di ipossia vera, il rallentamento del battito cardiaco fetale è accentuato, prolungato e persistente. Possono talvolta scomparire anche le contrazioni. Le cause che portano alla scarsa ossigenazione del feto sono legate ad anomalie del cordone ombelicale (giri intorno al collo, nodi veri o prolasso del cordone). Durante la discesa della testa può capitare che il funicolo (cordone) ombelicale sia stirato o si schiacci su se stesso, riducendo o interrompendo completamente il flusso di sangue che arriva al feto. In questi casi ovviamente si procede a una estrazione immediata del feto, o per via vaginale (anche con l’aiuto della ventosa) oppure tramite un taglio cesareo d’urgenza. Può capitare anche che, dopo un travaglio di parto molto protratto, si abbia un esaurimento della forza contrattile dell’utero; sia le contrazioni uterine sia la spinta della donna divengono poco efficaci e non promuovono l’uscita del feto. Anche in questi casi si ricorre alla ventosa, che viene inserita in vagina e applicata sulla testa del feto, senza ovviamente creare danni al bambino oppure al taglio cesareo.Molto più rare sono la rottura dell’utero e la rottura di una pregressa cicatrice uterina (in seguito a taglio cesareo). In questi casi si procede con urgenza immediata al taglio cesareo. Talvolta la difficoltà al parto vaginale (naturale) è dovuta al malposizionamento del feto. Se questo è troppo grosso oppure si presenta con la spalla (distocia di spalla) o con le natiche, può capitare che si abbia un arresto del travaglio, perché la parte più grossa del corpo non riesce a uscire. In passato si eseguivano delle manovre endouterine per riposizionare il feto e farlo uscire manualmente per via vaginale, mentre attualmente si preferisce, in questi casi, eseguire un taglio cesareo, in quanto le suddette manovre non sono esenti da rischi. Anche la placenta può staccarsi in maniera anomala e incompleta durante la fase di secondamento. Nei casi in cui ciò si verifica, si assiste alla mancata contrazione dell’utero, con abbondante emorragia, perché i vasi sanguigni sono beanti, cioè restano aperti. In questi casi si rende indispensabile un secondamento manuale associato a induzione della contrattura uterina per via farmacologica. Nei casi più gravi di emorragia inarrestabile si deve purtroppo ricorrere all’asportazione dell’utero per salvare la donna (isterectomia).


Manovre per aiutare l’espulsione

Attualmente questa manovre vengono utilizzate con minore frequenza, perché si predilige, nei casi di minore sicurezza del feto, portare a termine il parto con un taglio cesareo. Ancora oggi molto praticata è l’amniorexi, o rottura delle membrane; questa manovra consiste nello scollamento delle membrane amniotiche, quando si è al termine di una dilatazione completa. Se la rottura non avviene naturalmente, si procede allo scollamento e alla rottura delle stesse, per accelerare la progressione del travaglio. Ancora oggi viene utilizzata, come presidio in caso di scarsa contrattilità uterina o di esaurimento delle forze della donna, la ventosa. Si tratta di una piccola coppetta di metallo o di plastica collegata a un manico aspiratore. Viene applicata sulla testa del feto e in concomitanza di una spinta della donna fa presa sul feto aiutandolo a uscire. Un altro intervento chirurgico largamente eseguito durante il travaglio è l’episiotomia o perineotomia (taglio dell’imbocco della vagina), che consiste in un piccolo taglio dei tessuti della vagina per facilitare la fuoriuscita della testa del feto, onde evitare che questi si lacerino durante il passaggio di una testa molto grande. [S.S.]